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Scrittrice su due ruote, quattro quando non impenno
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    • Nella nostra pelle

      Posted at 22:57 by fedepis, on ottobre 1, 2019

      Fece dei tagli precisi e verticali ai lati del proprio corpo. Scelse di farlo di fronte lo specchio del salotto, posizionato accanto al divano di tessuto blu coperto da un lenzuolo arancione. Quel lenzuolo era un regalo di suo padre che camuffava il regalo di sua madre: il divano blu. Non erano mai andati troppo d’accordo quei due. Si erano amati tanto, più di quanto quel divano lasciasse immaginare, in fondo il blu e l’arancione potrebbero avere anche punti in comune, dipende da come li si guarda ma i suoi genitori non si guardavano dalla prospettiva giusta. Quando litigavano, sua madre, tirava via l’arancione dal blu con rabbia, lo appallottolava e lasciava quella palla di cotone sul tessuto ricamato del divano. Lui allora svuotava sul divano una intera bottiglia d’acqua. In questo modo, Lisa, capiva che i suoi genitori avevano litigato: ritrovandosi il sedere bagnato e accanto a lei una palla di tessuto arancione.

      Lisa mentre tagliava non era sola in casa, sentiva il criceto correre sulla ruota, un gatto appostarsi in giardino, e il rubinetto che perdeva in cucina. Sentiva anche i passi di qualcuno in camera da letto, qualcuno a cui non importava né del blu né dell’arancione. E quel qualcuno ero io.

      Mentre tagliava, il sangue rosso colava giù denso e in maniera regolare. Lisa non piangeva e non mosse ciglio quando mi vide riflessa, nuda come lei, così uguali da far male. «Che stai facendo?» Le chiesi.

      «Cambio pelle!» Rispose come fosse normale.

      «Io non te l’ho chiesto» Le dissi.

      «Lo so, lo so»

      Lei pensava che sarei scappata via, invece mi avvicinai, l’abbracciai e sentii il suo sangue sul mio avambraccio sinistro, percepii il taglio e provai un dolore non mio «Ti faccio male se sto così per un po’?»

      «Sì, non molto ma sì»

      Lisa pensava sempre che il male è inevitabile, una volta mi disse: “È inevitabile!” mi diede un bacio “ce ne faremo così tanto, è inevitabile!” Mi diede un altro bacio “E quando succederà, se vorremo, cercheremo di levarcelo da dosso tutto quel male” Mi fidai, per questo l’abbracciai di fronte lo specchio: per vedere da quanto male potessi liberarla.

      Tenevo la mano destra sul suo ventre e le baciai piano una spalla e poi l’altra. Stava quasi per piangere al contatto della mia pelle così ben costruita, con la sua di pelle che credeva piena di errori, fatta di niente, vecchia già da giovane, un risultato disordinato di casualità. Smettila, mi disse, spalancò gli occhi e poggiò la punta della lama sulla mia mano che tenevo sul suo ventre. «Devo diventare… »

      «Qualcosa di diverso da quello che sei adesso? Io non voglio qualcosa di diverso» Le dissi

      «Gli altri sì e magari andrà meglio anche a te. Lasciami finire» Lisa aveva un sorriso nervoso sul volto

      «No! Mi piace toccarla, mi piace il sapore, e affondarci dentro. Non puoi levarmi l’unica cosa in cui affonderei, in cui spero di affondare. Cosa ne farai?»

      «La piegherò come si deve, e la metterò dentro il cassetto, me ne prenderò cura.» Mise la sua mano sulla mia e si sciolse dal mio abbraccio, si girò e puntò la lama sul mio cuore. La guardai impaurita «Non fermarmi» Ricominciò «è la cosa giusta, così potrò scegliere un nome più accettato, un sesso ben visto, un’immagine ordinata»

      «E se tutto dovesse cambiare anche per te?» Chiesi. «Potresti non sentire più il mio profumo come fai adesso, potresti vedermi diversa.»

      «Stai zitta!» Mi spinse via con una violenza contenuta, avrebbe potuto fare di peggio, tornò allo specchio e riprese a tagliare, incideva con più velocità. La guardai percorrere in verticale il proprio corpo, tagliarsi con attenzione, macchiarsi di sangue, intravedevo i muscoli ed io mi sentii un mostro abbandonato e colpevole. «Aspetta!» La pregai «Ricucio tutto, ricucio ogni cosa, poi andranno via anche le cicatrici e se resteranno, le bacerò comunque. Mi piaceranno anche quelle, vorrò anche quelle. Amo già quelle che hai. Buttiamo via gli altri, buttiamo via il blu e l’arancione, ricucio tutto» intanto Lisa stava quasi finendo, il disordine sarebbe sparito e l’ordine tornato, il suo senso di inadeguatezza gli altri non l’avrebbero più percepito perché, ne era convinta, sarebbe andato via insieme alla sua pelle.

      «Sono stanca, finisci tu» Mi ordinò all’improvviso, nervosamente porgendomi, tremante, il coltello dalla parte della lama

      «Cosa?»

      «Sono stanca, mi fanno male le braccia e le mani, mi fa male tutto. Finisci tu. Non lo capisci che lo faccio anche per te? Lo so che provi dolore, lo sento, tutte le notti sento che provi dolore per la pelle che ho»

      «No, non è vero» Le sorrisi, anche se non sapevo perché lo stessi facendo e mi avvicinai «Non finirò niente, ricucio tutto, ogni cosa, tutto»

      «Fammi vedere cosa c’è sotto la mia pelle, fammi vedere se posso fare qualcosa.» Lisa non smise di piangere e mise il coltello insanguinato tra le mie mani. Poi osservai il lenzuolo arancione, mi avvicinai, lo afferrai e lo stesi per terra, dicendo a Lisa di sdraiarsi. «Lo faccio ma questo disordine è anche disordine mio. La tua pelle vorrei solo lavarla, passare un panno bagnato sulla ferita, su quel lungo taglio, disinfettare tutto, disinfettare te. Farò un solo taglio, fattelo bastare!» Mi misi sopra di lei a cavalcioni. «Quale parte?» Le chiesi

      «Taglia da parte a parte, in orizzontale, da un braccio all’altro, all’altezza delle clavicole» Spalancai gli occhi «È la mia parte migliore» Continuò «La parte che ti piace di più, taglia!»

      Io avevo soltanto voglia di vomitare, la guardai. «La pelle cambia se deve cambiare, non se la si strappa da dosso» Dissi sulle labbra di Lisa, forse anche per me quella sarebbe stata una rinascita, perché un po’ la pelle di Lisa era anche pelle mia. L’ho deciso appena ho ricevuto il morso sul naso che Lisa mi diede un giorno per scherzo. Dopo quel morso ho pensato che fine o non fine, amore o non amore, quella sarebbe stata anche pelle mia per tutto il tempo che era destino lo fosse. Ma il destino esiste? Oppure davvero è tutto soltanto frutto di una casualità disordinata? Non lo so, non mi diedi mai una risposta, ma l’idea del destino mi piace di più e quella pelle era un po’ mia.

      Presi un grande respiro e nuovamente le dissi che per me andava bene come era.

      «Lo dici soltanto perché tu non riesci a fare lo stesso con la tua di pelle» Obiettò Lisa

      «È una gara? Vuoi vedere quante ferite ho sotto pelle? Credi non ci abbia provato ad essere come volevano tutti gli altri? E sai cosa rimane alla fine? Niente! Solo sangue e il vuoto di un riflesso che neanche riconosceresti.» Senza pensarci avvicinai il coltello alle mie clavicole. Il gesto era già chiaro nella mia mente, lo consideravo già compiuto ma Lisa mi afferrò il braccio terrorizzata. Allontanò il coltello, mise le mani sulle mie spalle e mi strinse a lei. «Non volevo farti spaventare e la mia pelle non può stare senza la tua, rimaniamo abbracciate così» mi disse.

      Dopo un paio di ore il silenzio era calato, il gatto era andato via, il criceto dormiva, il rubinetto aveva smesso di perdere, Lisa respirava piano, in attesa che io ricominciassi a ricucire.

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    • L’Eroìna e la Motociclista

      Posted at 13:16 by fedepis, on agosto 29, 2019

      La spada stava nel fodero e non veniva sguainata da così tanto tempo che la polvere ne aveva preso possesso. L’armatura e lo scudo venivano mangiati dalla ruggire e la nostra ex-eroina che ne era la proprietaria, ogni giorno, in un momento preciso del pomeriggio – tra le 15 e le 16 – e la sera, prima di addormentarsi, rimaneva a fissarli con rimpianto.

      Una notte, dopo essersi appena assopita, si svegliò di soprassalto sentendo qualcuno che bussava violentemente alla sua porta, e questa persona mentre batteva intanto urlava, con rabbia e paura, alla nostra ex-eroina di svegliarsi e aprire immediatamente la porta.

      L’eroina scese dal letto con il cuore che batteva forte, il respiro affannato e gli occhi verdi impastati dal sonno. Raggiunse la porta e la spalancò. Di fronte a se vide un’altra donna, pure carina, con in mano due caschi da motociclista.

      «Pensavo avessi il sonno più profondo» Disse la motociclista ridendo «E pensavo che voi eroine dormiste già vestite» l’eroina fece una faccia confusa «con l’armatura!» specificò la motociclista, l’eroina spalancò gli occhi e sentirono un boato in lontananza. «Quello è il nostro mostro!»

      «Il nostro? C’è sicuramente stato un disguido: io non combatto più, non combatto più niente. La mia spada e la mia armatura sono in pensione»

      «Ah certo! Ci sarà stato sicuramente un disguido» la motociclista le lanciò il casco in mano «Non abbiamo molto tempo, vai a vestirti o trasformarti… fai tu. Ma sbrigati!»

      La nostra ex-eroina rise «Non hai capito» disse ritornando violentemente il casco alla motociclista che fece una smorfia di dolore «Non sono una eroina, sono una persona normale» stava per chiudere la porta ma la motociclista mise il casco tra la porta e lo stipite.

      «Ho una serie di persone normali alle quali potrei chiedere aiuto, ma lo sto chiedendo a te. Quel mostro ci distruggerà, principalmente è arrabbiato con me ma farà qualcosa a tutti quelli che mi stanno a cuore, e il caso ha voluto che tu sia una di queste e inoltre puoi anche aiutarmi»

      «Non ho capito»

      «Non hai capito? Dio ma non mi hai neanche notata? Bah comunque lasciando stare l’orgoglio… piacere io sono quella che al bar qui all’angolo tutte le mattine ti regala il cornetto alla crema di pistacchio, non perché abbia soldi da spendere ma perché sei carina quando ti sporchi tutto il naso di zucchero a velo e ti macchi la maglia sistematicamente di crema» sentirono un altro boato «Per favore, saranno due i cornetti a colazione e una volta a settimana ti porto a cena»

      L’eroina trattene il sorriso, la proposta non la lasciava indifferente. Un altro boato ancora ma stavolta più vicino e in lontananza videro anche del fuoco alzarsi verso il cielo «Cavolo, va bene» sbottò con rabbia la nostra nuovamente-eroina «Però niente cornetti e niente cena» disse orgogliosa, chiuse la porta e poi la riaprì «Va bene anche solamente un cornetto di mattina» richiuse la porta, andò in camera, si legò i ricci in una coda, si infilò l’armatura tutta rovinata, prese la spada e per un momento ci ripensò. Un momento che durò così allungo da farle credere che la motociclista se ne fosse andata ma la sentì battere nuovamente alla porta. Uscì da casa, salì sulla moto insieme alla motociclista e infilarono i caschi «Tieniti forte» disse la motociclista.

      «Ho dimenticato lo scudo»

      «Sarò io il tuo scudo.»

      In un batter d’occhio arrivarono vicino al punto da dove provenivano i boati e il fuoco. C’era un gran caldo, scesero dalla moto e tolto il casco la nostra eroina vide un mostro che aveva il corpo di un drago, con la testa di un leone che sputava fuoco.

      «Moriremo… entrambe!» sbottò l’eroina «per dei cornetti alla crema di pistacchio»

      «Beh avevo messo più cose sul piatto, comunque potranno raccontare che abbiamo provato a non farlo»

      La motociclista prese dal baule della moto una balestra e l’eroina sguainò la spada correndo verso le zampe del mostro che appena aprì le fauci per sputare fuoco venne colpito dalle frecce della motociclista. L’eroina lo colpiva nella zampa destra senza pensare a niente, fin quando il mostro non riuscì a calciarla via facendola finire accanto alla motociclista «Ehi, ti sei fatta male?» le chiese

      «Sicuramente non bene» si guardò l’armatura «Si è spaccata e sanguino. Non posso continuare»

      La motociclista continuava a lanciare frecce mettendosi davanti l’eroina per proteggerla, ripetendole come un disco rotto: «sì che puoi, sì che puoi» mail mostro afferrò la motociclista dalle gambe stringendole forte e iniziò ad avvicinarla alla bocca. L’eroina si alzò di scatto, corse verso la moto, ci salì sopra e corse verso la zampa già ferita del mostro che colpì ancora e ancora finché il mostro non cadde lasciando andare la motociclista che trovando la balestra vicino a sé la prese e lanciò una freccia che colpì il mostro in testa prima che lui arrostisse l’eroina.

      Cadde il silenzio, la motociclista non si muoveva e non parlava e l’eroina le si avvicinò «Ehi, stai bene?»

      La motociclista la guardò e sorrise «Credo mi abbia rotto qualcosa, quindi mi sa che non ti potrò guardare sporcarti con i cornetti per un po’ ma grazie, è stato bello» l’eroina sorrise e si sdraiò accanto alla motociclista che le spostò i ricci dalla fronte chiedendole: «abbiamo di nuovo in eroina in città?»

      «Forse! Ma ho bisogno di crema di pistacchio per rimettermi in forze quindi mi sa che verrò a mangiarli da te ogni mattina finché servirà. Paghi comunque tu io devo sistemare l’armatura»

      La motociclista sorrise «Affare fatto»

      Lì sdraiate, la nostra eroina e la motociclista si riposarono accanto alla carcassa del mostro guardando l’alba.

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    • La signorina Credo e la signorina Boh

      Posted at 23:23 by fedepis, on luglio 25, 2019

      La signorina Credo e la signorina Boh avevano due bancarelle ai lati di una larga e lunga strada del centro città, erano lì da moltissimo tempo. Non avevano mai parlato, si guardavano soltanto ma neanche troppo bene. Per esempio nessuna delle due avrebbe potuto dire di che colore l’altra avesse gli occhi. Non avrebbero potuto neanche tirare a indovinare. Però la signorina Credo avrebbe potuto riconoscere il cappotto della signorina Boh tra milioni, non lo toglieva mai. La signorina Boh dal canto suo avrebbe potuto riconoscere il modo di camminare della signorina Credo tra milioni.

      La signorina Credo vendeva ogni genere di fogli di carta con parole scritte sopra. Fogli di differenti misure, colori ed epoche, scritti da uomini donne e bambini. E c’erano lettere, racconti, pensieri, singole parole, poesie, canzoni, invettive, confessioni, perfino qualche lista della spesa. Tutto scritto rigorosamente a mano con qualsiasi mano e con qualsiasi penna.

      La signorina Boh invece vendeva copertine per i libri, anche questi di qualsiasi dimensione e colore, peso e materiale. Alcune avevano decorazioni in oro, altre erano rudimentali. Ne aveva una in ferro battuto piccola come il palmo della sua mano e un’altra fatta di piume ma troppo grande per essere tenuta sopra la bancarella. Ogni copertina aveva rigorosamente sopra un titolo.

      Il mondo è pieno di gente che ha bisogno di parole e copertine con titoli annessi.

      La signorina Credo e la signorina Boh non si stavano molto simpatiche e stranamente la signorina Credo provava soddisfazione quando un suo cliente riusciva a trovare le parole giuste per la copertina comprata dalla signorina Boh e quest’ultima provava la stessa segreta soddisfazione quando una sua copertina era perfetta per delle parole comprate poco prima.

      Un giorno una tromba d’aria colpì la città, i commercianti riuscirono a salvarsi ma molte bancarelle si distrussero e la signorina Boh e la signorina Credo ritrovarono la loro merce tutta mischiata.

      «Adesso come faremo?» chiese la signorina Boh

      La signorina Credo ci pensò un po’ su, guardò la signorina Boh e le sorrise «La mia bancarella non è messa così male, potremmo dividerla?»

      «Dividerla?»

      «Sì!»

      «Ma come si possono vendere fogli con parole a caso scritte sopra? Oltretutto le parole di qualcun altro»

      «A parte che sarebbe un problema mio, comunque non sono parole a caso, hanno senso tutte insieme. Sono solo senza titolo. Non siamo tutti bravi ad usare le parole, a volte c’è bisogno di qualcuno che dica quello che non riusciamo a dire noi. Tu vendi copertine con titoli a caso!»

      «Copertine e titoli per parole scelte con cura» precisò la signorina Boh con un cipiglio da maestrina «per parole che hanno bisogno di essere custodite da poche parole… è importante avere un titolo»

      «Unico per tutta la vita?»

      «Boh unico per il momento che ne ha bisogno»

      La signorina Credo sorrise «Anche i miei fogli, credo, servano per i momenti ai quali sono destinati»

      La signorina Boh sbuffò ma disse che si poteva provare. Tirarono su la bancarella e diligentemente raccolsero la loro merce da terra e la posarono sul lato del ripiano che avevano scelto. La signorina Boh notò che spesso la signorina Credo si fermava oppure rischiava di perdere l’equilibrio e mentre la guardava pensava che anche a lei capitava di fermarsi e rischiare di cadere ma dentro di sé. I clienti furono felici di vederle insieme, di non dover spostarsi da un lato all’altro della strada, di trovare immediatamente le parole giuste per la copertina scelta e viceversa. I guadagni aumentarono perché le signorine Boh e Credo erano divertenti da guardare quando battibeccavano.

      Un giorno la signorina Credo, mentre la signorina Boh prendeva dei caffè, adocchiò nella borsa della sua vicina una copertina che non aveva mai visto sulla bancarella. Senza pensarci la prese, la copertina era fatta di legno di quercia e ai quattro angoli vi erano disegnati dei piccolissimi mandala verdi, poi ne lesse il titolo: “Se mi vedi, esisto!” La signorina Boh tornò, i caffè le caddero dalle mani, i suoi occhi si riempirono di lacrime, il naso diventò rosso e il dolore, la vergogna sembravano spaccarle le vene delle mani e del collo. «Non volevo curiosare», iniziò la Signorina Credo, «forse sì ma appena ho intravisto la copertina ho sentito l’istinto di conoscerne il titolo, ed è bellissimo, lei è bellissima. Non lei, lei, ma la copertina. Cioè anche lei ma questa è un’altra storia» rise impacciata. La signorina Boh andò verso di lei e le strappò la copertina dalle mani, le girò le spalle, la signorina Credo cercò di fermarla ma perse l’equilibrio e cadde sulle ginocchia: «Ho le parole giuste!» urlò mentre cercava di rimettersi in piedi «Ho le parole per la sua copertina signorina Boh »

      La signorina Boh tornò a guardarla, non le porse la mano per aiutarla e non si addolcì perché era per terra; in realtà la odiava un po’ anche se pensava fosse bella, la odiava. «Esattamente! La mia!» sbottò.

      «Guardi!» la signorina Credo, rialzatasi, zoppicando andò verso la propria borsa, prese un mucchio di fogli spiegazzati. «Queste sono le mie parole, ok? Vorrei che le leggesse» la signorina Credo glieli porse ma la signorina Boh benché fosse tentata non li prese. Allora la signorina Credo cominciò a leggere: ”

      Se il mio specchio fosse acqua mi ci tufferei dentro per afferrare il mio riflesso per i capelli. E corpo e riflesso diventerebbero un’unica cosa. Non so quando il mio corpo nudo ha smesso di essere mio, non so quando è sparito da me, quando ho cominciato ad odiarlo. Quando ho pensato che liberarmene fosse una possibilità, e non so perché sono riapparsa durante una tromba d’aria.

      Ho scritto altro Signorina Boh e non l’ho fatto solo per me, io stavo scrivendo parole per lei. Ho creduto di poterlo fare, di sapere che parole le girassero per la testa, soltanto che poi hanno cominciato ad assomigliare alle mie. E non spariscono, Signorina Boh, lei non sparisce»

      La signorina Boh le strappò i fogli dalle mani, afferrò la borsa e andò via. Non tornò per tutto il giorno e fu la signorina Credo che si occupò delle sue vendite. Quando non ci furono più clienti, decise di raggiungere la casa della signorina Boh, che sapeva vivere lì vicino. Suonò al campanello della porta con su scritto Boh. Appena la porta si aprì la signorina Credo sorrise, vedendo la signorina Boh senza cappotto per la prima volta e le vennero in mente altre parole da scrivere. Impacciata le disse «Lo so che mi odia ma ho i suoi soldi»

      «Entra!» La casa era sembrava piccola e inondata da una rilassante luce soffusa che si poggiava sulle copertine di cui era stracolma. In fondo alla stanza vi era una macchina per rilegare i testi «Siediti a quel tavolo» disse la signorina Boh segnando un tavolo rotondo pieno di penne «Scegli la penna che preferisci, sono tutte blu ma non sapevo quale fosse per te più comoda. Riscrivi tutte le nostre parole, in bella e senza pasticciare il foglio. Quando hai finito rileghiamo tutto. E sì sono bella come la copertina e il titolo, e tu sei bella come tutte quelle parole»

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      La maggior parte delle volte in cui un bicchiere di vetro ricolmo di acqua cade per terra, la colpa è della distrazione. Tornando indietro, in fondo, avremmo potuto evitarlo. Se non l’avessimo posizionato così vicino al bordo del tavolo, oppure se l’avessimo spostato in tempo, prima che il nostro gomito lo colpisse, non sarebbe mai caduto e noi non avremmo rischiato di ferirci camminando su dei pezzi di vetro a piedi scalzi. Sophia lo guarda cadere, il bicchiere. Sente il tonfo, lo vede infrangersi sul pavimento e, nello stesso istante, lei fa la medesima fine.
      Per tutto il romanzo, con il suo strano modo di camminare, Sophia vede esplicarsi al di fuori di sé la malattia genetica che porta dentro. Tutto è una perdita di equilibrio, in tutto c’è odore di arance rosse e succose che scivolano via dalle mani di un giocoliere e si infrangono sui pezzi di vetro. Ma chi è il giocoliere? È davvero chi crede Sophia?
      Attraverso flussi di pensiero, flashback, cambi di persona, decostruzioni e ricostruzioni, Sophia si rende conto che nulla era come credeva, che la ricerca di qualcuno implica sempre la ricerca di se stessi e che, forse, è proprio vero che si comincia dalla fine.
      – RobinEdizioni

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