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Scrittrice su due ruote, quattro quando non impenno
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    • Lista di cose da riprendere

      Posted at 19:40 by fedepis, on giugno 19, 2020

      • Il balsamo per quando vorrò sprofondare tra i miei capelli

      • Il cuscino morbido per quando vorrò far sprofondare pure il cervello

      • Il gommone di salvataggio per quando quasi affogo

      • La respirazione bocca a bocca per quando ho bevuto troppo

      • Le chiusure di sicurezza per quando vorrò aprire i cassetti e gli sportelli sbagliati

      • I gommini per quando mi vorrò trascinare senza farmi sentire

      • Il mantello dell’invisibilità per quando non vorrò farmi trovare

      • Il mio stesso abbraccio per quando avrò paura del buio

      • “Giù la testa” fischiettata per quando non riuscirò a dormire

      • Le catene per quando vorrei raggiungere delle sirene stronze

      • Hermione per quando i miei Harry e Ron non saranno in grado di salvarmi

      • Uno stecco di legno per quando non riuscirò a tenermi in piedi

      • Un corpo incluso per quando mi sentirò esclusa

      • Onomatopee per quando non avrò parole

      • Sancho Panza quando avrò bisogno di essere assecondata

      • Un paio di occhiali da sole per quando sarò accecata

      • Un paio di cuffie per quando non vorrò sentire

      • La mia voce per quando sarò arrabbiata

      • Le mie lacrime per quando avrò paura, per quando sarò felice

      • La mia tenerezza per quando non mi sentirò abbastanza

      • Le mie battute stupide per quando la GNE sarà troppo

      • I pezzi di cuore, del mio cuore, per sempre, per tutto

      Inviato su Senza categoria | 0 commenti | Tag amore, disabilità, lgbt
    • Vasi comunicanti e altre cose a caso

      Posted at 19:41 by fedepis, on giugno 14, 2020

      Da quando sono malata mi sono accorta che la mia vita procede a scatti, ma che in fondo sia così per chiunque tranne per chi vuole che capiti sempre qualcosa, anche cose a caso, anche cose inutili, sofferenze inutili, finti amori inutili, scorciatoie che portano solo a strade che “non spuntano”. È così per tutti, e mi rendo conto che mi affanno a nasconderlo, a fare sempre qualcosa perché se fai qualcosa secondo la cultura di massa: stai bene! Ma posso stare bene anche senza fare niente.

      Per me è come se ogni tot tempo ci fosse un edizione speciale alla tv che dirama un lockdown. È come alzarsi ma stare comunque seduti, è come saltare sul letto ma qualche volta sbattere la testa nel tetto.

      E quando sto seduta… va beh io sono sempre seduta ma quando sto seduta dentro il mio corpo mi sembra di diventare una specie di contenitore, un pensatoio che potrebbe essere anche utile se la riproduzione della bacchetta magica di Harry Potter che ho nell’armadio funzionasse. Ma non funziona e io posso contenere tutto e tutti, i miei pensieri e i pensieri degli altri. Lo so, lo so non è un discorso umile ma non posso essere perfetta. Non si può contenere per sempre, non mi posso contenere per sempre, contenersi da soli non credo sia fattibile, perché tanto o si rompe da solo sto contenitore o qualcun altro toglie il tappo e finisce che succede un casino come con il vaso di Pandora, oppure che fai spuntino con il frutto sbagliato, fate voi…

      Allora penso che io non voglio contenere nessuno per intero e che non voglio che qualcuno contenga me per intero, io non voglio contenermi per intero, voglio avere la sincerità di dare e di ricevere pure da seduta, la libertà di versarmi in qualcuno e che qualcuno si versi in me raggiungendo lo stesso livello di qualsiasi cosa sarà il turno di contenere.

      Voglio “il principio dei vasi comunicanti”

      Inviato su GNE GNE GNE!, Senza categoria | 0 commenti | Tag amore, disability, lgbt
    • Pensieri sul corpo

      Posted at 12:58 by fedepis, on aprile 6, 2020

      Ho sentito la chiave girare nella serratura della porta, avevo lasciato loro le chiavi perché sono masochista e adesso i miei pensieri si sono chiusi dentro casa, come tutti noi. Dispersi sul mio corpo che è tutto ciò di cui hanno bisogno.

      Giocano su un’altalena che è qui nel mio stomaco e si sfidano a lanciarsi per aria per vedere chi cade in piedi, integro.

      Uno legge un manuale su un leggìo di legno poggiato su una scrivania, proprio in mezzo al mio cuore. Ogni tanto smette di studiare, mi guarda e comincia a ripetere ossessivamente le stesse frasi con un ghigno rabbioso.

      Altri ancora passeggiano sulla mia fronte, sembrano baci ma se mi distraggo diventano spilli e poi di nuovo baci.

      Due giocano al tiro alla fune con la collana che ho al collo per vedere chi potrà dormire sulle mie clavicole. Non so se sono più smemorati o stronzi ma ogni giorno tirano forte, a volte così forte che quasi soffoco finché non si ricordano che ne hanno una a testa di clavicola.

      Uno tira fuori una margherita dalla tasca, sospira, si siede sul mio muscolo pelvico, sospira di nuovo, incrocia le gambe e inizia il suo m’ama o non m’ama.

      Un altro è sulla mia testa che guarda film e ne immagina infiniti usando i miei capelli come un tappeto sul quale sdraiarsi e stare comodo.

      Sulle mie spalle altre due scrivanie ognuna per un pensiero. Uno ha una penna blu in mano e scrive poesie e storie, scrive se stesso senza pensarci troppo. L’altro scrive al computer, non mi sente perché ha la musica a palla, e le sue dita scorrono veloci sui tasti, a volte chiude gli occhi e muove il collo come se le idee provenissero dalla colonna vertebrale.

      Sui miei addominali si giocano partite di pallavolo, non hanno più di 15 anni questi pensieri. Alla fine non si capisce mai chi vince e in realtà non frega niente a nessuno. Poi si torna in classe e due di loro si nascondono in bagno per fumare, uno guarda, l’altro no.

      Molti sono ricercatori d’oro che affondano le mani nelle mie cosce e nei mie polpacci, bicipiti e tricipiti. Cercano qualche pezzo di muscolo ma i loro setacci sono sempre più vuoti e silenziosi.

      Ho pensieri sui miei palmi, tra le linee dell’amore, della vita, tra le mie dita. Si sfiorano tra loro, vestiti e no, presi da amori diversi. C’è chi ride, chi piange, chi sospira e chi si muove muto.

      Sulla mia schiena, le mie scapole diventano la panchina per il più piccolo dei miei pensieri, il più piccolo e il più vecchio. Rimane lì, assomigliandomi più di tutti. Ha i miei occhi, i miei desideri, i miei sensi di colpa, la mia speranza fatta rabbia. Vigila tutti tra un libro e l’altro. Qualche volta prende una fionda, degli orsetti haribo e dei kiwiwini che lancia a destra a sinistra, sotto e sopra. Così addormenta il pensiero nel cuore, sbilancia uno dei giocatori del tiro alla fune, sfama i ricercatori d’oro, salva un po’ di margherite, i pensieri sulla fronte diventano tutti baci, la partita di pallavolo si riempie di risate e quei due che fumano si scambiano un po’ di zucchero. Per ultimo dà da mangiare al pensiero sulla mia testa. Poi si sdraia sui libri tra le mie scapole e torna a leggere.

      Inviato su LETTERE A CORPI INCLUSI, Senza categoria | 0 commenti | Tag amore, disabilità, lgbt, quarantena
    • Promemoria

      Posted at 20:15 by fedepis, on febbraio 15, 2020

      Spesso non ricordo gli impegni, o meglio: non ricordo quelli che prendo con me stessa, perciò inserisco sveglie e promemoria. Una oretta fa stavo per segnare un promemoria e scopro che domani 16 febbraio 2020 il mio cellulare mi avrebbe fatto sapere questo:

      Ricorda: chiedetevi ciò di cui avete bisogno

      So perché questo promemoria io l’abbia scritto al plurale ma non so cosa dovrebbe succedere domani e io non so neanche perché dovrebbe succedere qualcosa e non credo succederà nulla. Domani sarebbe stato solo domani e dubito sia una frase di mia creazione ma difficilmente credo al caso; credo fermamente nelle connessioni, nella bellezza collaterale, credo persino che senza malattia i miei rapporti umani non sarebbero stati quello che sono stati, nel bene e nel male.

      So per certo che oggi è stata una giornata idiota come molte altre in questo lungo periodo. So che la mia testa molto spesso non è un luogo comodo dove passare il tempo né per me né per gli altri che tengo al riparo. Io e i miei pensieri battagliamo ogni giorno. Non tutti ma alcuni sono proprio degli stronzi e banchettano con i loro pensieri contrari a mio discapito. Vengono e vanno via senza interessarsi del fatto che dovrei dormire, studiare, respirare, scrivere. Sanno che a volte le energie vanno centellinate, sanno che devo farlo adesso, perciò sembro una di quelle madri che cedono ai capricci di quei figli che sanno che più urlano e piangono, più ottengono. Ma in fondo credo che chiunque stia leggendo sappia cosa io voglia dire.

      So per certo che non posso ringraziare la persona che mi ha inconsapevolmente obbligato ad aprire l’app, mi prenderebbe per pazza e se fossi più strafottente lo farei. La ringrazierei perché dovrei ricordarmelo di chiedere ciò di cui ho bisogno alle persone che amo, che dovrei chiederlo a me stessa ciò di cui ho bisogno senza cercare disperatamente di essere qualcosa che alla fine dei conti non sono mai. Dovrei chiedermi la strafottenza, dovrei prendere le mie parole, le mie soddisfazioni, le mia sicurezza in me stessa, la consapevolezza di aver fatto cose giuste, a volte anche perfette, che dovrei prendermi il tempo per tutto quello che fa schifo.

      In questi giorni mi gira in testa la frase: sarò quercia! Ed è vero: io sarò quercia, anche se a volte su questo ho mentito ma lo sarò e in fondo un po’ lo sono. Forse è era questo il punto del promemoria, dire: sarò quercia, sono quercia ma posso comunque chiederti di cosa hai bisogno e tu puoi chiederlo a me. E possiamo darci quello di cui abbiamo bisogno anche se sono quercia.

      Non lo so, sta di fatto che il promemoria domani suonerà comunque.

      Inviato su LETTERE A CORPI INCLUSI, Senza categoria | 0 commenti | Tag amore, disabilità, lettere, lgbt
    • Nella nostra pelle

      Posted at 22:57 by fedepis, on ottobre 1, 2019

      Fece dei tagli precisi e verticali ai lati del proprio corpo. Scelse di farlo di fronte lo specchio del salotto, posizionato accanto al divano di tessuto blu coperto da un lenzuolo arancione. Quel lenzuolo era un regalo di suo padre che camuffava il regalo di sua madre: il divano blu. Non erano mai andati troppo d’accordo quei due. Si erano amati tanto, più di quanto quel divano lasciasse immaginare, in fondo il blu e l’arancione potrebbero avere anche punti in comune, dipende da come li si guarda ma i suoi genitori non si guardavano dalla prospettiva giusta. Quando litigavano, sua madre, tirava via l’arancione dal blu con rabbia, lo appallottolava e lasciava quella palla di cotone sul tessuto ricamato del divano. Lui allora svuotava sul divano una intera bottiglia d’acqua. In questo modo, Lisa, capiva che i suoi genitori avevano litigato: ritrovandosi il sedere bagnato e accanto a lei una palla di tessuto arancione.

      Lisa mentre tagliava non era sola in casa, sentiva il criceto correre sulla ruota, un gatto appostarsi in giardino, e il rubinetto che perdeva in cucina. Sentiva anche i passi di qualcuno in camera da letto, qualcuno a cui non importava né del blu né dell’arancione. E quel qualcuno ero io.

      Mentre tagliava, il sangue rosso colava giù denso e in maniera regolare. Lisa non piangeva e non mosse ciglio quando mi vide riflessa, nuda come lei, così uguali da far male. «Che stai facendo?» Le chiesi.

      «Cambio pelle!» Rispose come fosse normale.

      «Io non te l’ho chiesto» Le dissi.

      «Lo so, lo so»

      Lei pensava che sarei scappata via, invece mi avvicinai, l’abbracciai e sentii il suo sangue sul mio avambraccio sinistro, percepii il taglio e provai un dolore non mio «Ti faccio male se sto così per un po’?»

      «Sì, non molto ma sì»

      Lisa pensava sempre che il male è inevitabile, una volta mi disse: “È inevitabile!” mi diede un bacio “ce ne faremo così tanto, è inevitabile!” Mi diede un altro bacio “E quando succederà, se vorremo, cercheremo di levarcelo da dosso tutto quel male” Mi fidai, per questo l’abbracciai di fronte lo specchio: per vedere da quanto male potessi liberarla.

      Tenevo la mano destra sul suo ventre e le baciai piano una spalla e poi l’altra. Stava quasi per piangere al contatto della mia pelle così ben costruita, con la sua di pelle che credeva piena di errori, fatta di niente, vecchia già da giovane, un risultato disordinato di casualità. Smettila, mi disse, spalancò gli occhi e poggiò la punta della lama sulla mia mano che tenevo sul suo ventre. «Devo diventare… »

      «Qualcosa di diverso da quello che sei adesso? Io non voglio qualcosa di diverso» Le dissi

      «Gli altri sì e magari andrà meglio anche a te. Lasciami finire» Lisa aveva un sorriso nervoso sul volto

      «No! Mi piace toccarla, mi piace il sapore, e affondarci dentro. Non puoi levarmi l’unica cosa in cui affonderei, in cui spero di affondare. Cosa ne farai?»

      «La piegherò come si deve, e la metterò dentro il cassetto, me ne prenderò cura.» Mise la sua mano sulla mia e si sciolse dal mio abbraccio, si girò e puntò la lama sul mio cuore. La guardai impaurita «Non fermarmi» Ricominciò «è la cosa giusta, così potrò scegliere un nome più accettato, un sesso ben visto, un’immagine ordinata»

      «E se tutto dovesse cambiare anche per te?» Chiesi. «Potresti non sentire più il mio profumo come fai adesso, potresti vedermi diversa.»

      «Stai zitta!» Mi spinse via con una violenza contenuta, avrebbe potuto fare di peggio, tornò allo specchio e riprese a tagliare, incideva con più velocità. La guardai percorrere in verticale il proprio corpo, tagliarsi con attenzione, macchiarsi di sangue, intravedevo i muscoli ed io mi sentii un mostro abbandonato e colpevole. «Aspetta!» La pregai «Ricucio tutto, ricucio ogni cosa, poi andranno via anche le cicatrici e se resteranno, le bacerò comunque. Mi piaceranno anche quelle, vorrò anche quelle. Amo già quelle che hai. Buttiamo via gli altri, buttiamo via il blu e l’arancione, ricucio tutto» intanto Lisa stava quasi finendo, il disordine sarebbe sparito e l’ordine tornato, il suo senso di inadeguatezza gli altri non l’avrebbero più percepito perché, ne era convinta, sarebbe andato via insieme alla sua pelle.

      «Sono stanca, finisci tu» Mi ordinò all’improvviso, nervosamente porgendomi, tremante, il coltello dalla parte della lama

      «Cosa?»

      «Sono stanca, mi fanno male le braccia e le mani, mi fa male tutto. Finisci tu. Non lo capisci che lo faccio anche per te? Lo so che provi dolore, lo sento, tutte le notti sento che provi dolore per la pelle che ho»

      «No, non è vero» Le sorrisi, anche se non sapevo perché lo stessi facendo e mi avvicinai «Non finirò niente, ricucio tutto, ogni cosa, tutto»

      «Fammi vedere cosa c’è sotto la mia pelle, fammi vedere se posso fare qualcosa.» Lisa non smise di piangere e mise il coltello insanguinato tra le mie mani. Poi osservai il lenzuolo arancione, mi avvicinai, lo afferrai e lo stesi per terra, dicendo a Lisa di sdraiarsi. «Lo faccio ma questo disordine è anche disordine mio. La tua pelle vorrei solo lavarla, passare un panno bagnato sulla ferita, su quel lungo taglio, disinfettare tutto, disinfettare te. Farò un solo taglio, fattelo bastare!» Mi misi sopra di lei a cavalcioni. «Quale parte?» Le chiesi

      «Taglia da parte a parte, in orizzontale, da un braccio all’altro, all’altezza delle clavicole» Spalancai gli occhi «È la mia parte migliore» Continuò «La parte che ti piace di più, taglia!»

      Io avevo soltanto voglia di vomitare, la guardai. «La pelle cambia se deve cambiare, non se la si strappa da dosso» Dissi sulle labbra di Lisa, forse anche per me quella sarebbe stata una rinascita, perché un po’ la pelle di Lisa era anche pelle mia. L’ho deciso appena ho ricevuto il morso sul naso che Lisa mi diede un giorno per scherzo. Dopo quel morso ho pensato che fine o non fine, amore o non amore, quella sarebbe stata anche pelle mia per tutto il tempo che era destino lo fosse. Ma il destino esiste? Oppure davvero è tutto soltanto frutto di una casualità disordinata? Non lo so, non mi diedi mai una risposta, ma l’idea del destino mi piace di più e quella pelle era un po’ mia.

      Presi un grande respiro e nuovamente le dissi che per me andava bene come era.

      «Lo dici soltanto perché tu non riesci a fare lo stesso con la tua di pelle» Obiettò Lisa

      «È una gara? Vuoi vedere quante ferite ho sotto pelle? Credi non ci abbia provato ad essere come volevano tutti gli altri? E sai cosa rimane alla fine? Niente! Solo sangue e il vuoto di un riflesso che neanche riconosceresti.» Senza pensarci avvicinai il coltello alle mie clavicole. Il gesto era già chiaro nella mia mente, lo consideravo già compiuto ma Lisa mi afferrò il braccio terrorizzata. Allontanò il coltello, mise le mani sulle mie spalle e mi strinse a lei. «Non volevo farti spaventare e la mia pelle non può stare senza la tua, rimaniamo abbracciate così» mi disse.

      Dopo un paio di ore il silenzio era calato, il gatto era andato via, il criceto dormiva, il rubinetto aveva smesso di perdere, Lisa respirava piano, in attesa che io ricominciassi a ricucire.

      Inviato su Te l'ho mai raccontato? | 2 commenti | Tag amore, lgbt, lgbtq, racconti
    • 2p = 4l

      Posted at 12:31 by fedepis, on agosto 8, 2019

      Balliamo con poche pretese dentro un quadrato. Muovendoci sul posto con la mia testa sulla tua piccola giovane spalla destra e la tua testa sulla mia indecente giovane spalla destra, senza dirci niente di nuovo o di meglio che non sia il silenzio.

      Balliamo tra quattro angoli uguali mentre fuori terremoti, eruzioni, annegamenti e guerre, fanno crepare il nostro punto di appoggio e parliamo per non perdere il contatto, il controllo, gli occhi, per lasciar fuori la paura.

      Balliamo e chiami il futuro al mio orecchio e io sussurro sì al tuo orecchio, sul tuo collo, sul tuo petto. E ripetiamo sì sui nostri corpi, dentro quattro angoli uguali, fino a poterne calcolare il perimetro e l’area.

      Balliamo e i lati del quadrato diventano fottute lastre di cristallo che si romperanno frantumate dalle mie e tue urla. E ci feriranno lasciandoci cicatrici luccicanti al sapore di zenzero e limone.

      Balliamo, i piedi doloranti, con le braccia lungo il busto e le mani intrecciate alla fine di tutto, con le mie labbra sulle tue e le tue sulle mie per aiutarci tra un respiro e l’altro dentro un quadrato diventato rombo al ritmo di cadute, rivincite e armoniche

      Inviato su LETTERE A CORPI INCLUSI, Senza categoria | 0 commenti | Tag amore, lettere, lgbt, queer, scrittori emergenti
    • Scontri di Definizioni

      Posted at 14:32 by fedepis, on gennaio 18, 2019

      Passo dal desiderio di volermi definire all’avere il terrore verso ogni tipo di definizione. Probabilmente perché il mondo è un po’ bastardo e definirsi significa andare incontro a scontri di definizioni.

      Io ad un certo punto mi sono ritrovata con una definizione addosso come l’estate di Jovanotti. Una definizione che si materializza con il postino che suona al citofono portandoti il certificato di invalidità. Tutto quello che è successo prima dell’arrivo del postino sconvolge ma non definisce. Tutto quello che è successo prima si concretizza con l’INPS.

      Io ad un certo punto sono diventata una portatrice di handicap, handicappata, una disabile, una persona disabile oppure con disabilità, una invalida al 60%, 80%,100%. Tendenzialmente non mi indigno se vengo definita soltanto “disabile” . Non mi sento sminuita, ovviamente a meno che non mi rendessi conto di un filo di disprezzo nel tono di chi mi definisce semplicemente disabile. Il fatto che io non mi indigni in ogni circostanza mi fa sentire un po’ in colpa verso chi invece si indigna.

      Io mi indigno di più, mi incazzo proprio quando con quel “persona con disabilità” intendono un essere umano chiuso in casa, senza vita sociale, affettiva e sessuale, che passa il tempo a compiangersi.

      Sono questi per me gli scontri di definizioni. Chi se ne frega se “persona” non precede “disabile”? Se poi si infilano all’interno di una parola una serie infinita di variabili, di 2+2, di ragionamenti illogici, ignoranti, è peggio questo. È peggio lo stupore sul viso di chi scopre che sono laureata, che scrivo, viaggio, non mi annoio, ho una vita sentimentale con tutto quello che ne consegue, pure le rotture di scatole. È peggio sentirsi dire, da una coppia di sconosciuti, durante una passeggiata, che la persona che è con me appena si innamorerà non avrà più tempo per “portarmi fuori” e sono stata zitta, ho avuto paura di dire “veramente è la mia ragazza, quindi se si innamora di qualcuno sono io che non la porto più fuori”, avrebbe significato vedere uno stupore alla decima potenza.

      A volte credo che ci arrovelliamo nell’appiopparci delle definizioni per sapere cosa rispondere agli altri.

      Perciò preferisco essere considerata Federica la disabile che fa cose, anche a caso a volte, ma cose.

      Inviato su GNE GNE GNE! | 0 commenti | Tag disabiità, disablity, lgbt
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    • L’arte di essere nessuno

      La maggior parte delle volte in cui un bicchiere di vetro ricolmo di acqua cade per terra, la colpa è della distrazione. Tornando indietro, in fondo, avremmo potuto evitarlo. Se non l’avessimo posizionato così vicino al bordo del tavolo, oppure se l’avessimo spostato in tempo, prima che il nostro gomito lo colpisse, non sarebbe mai caduto e noi non avremmo rischiato di ferirci camminando su dei pezzi di vetro a piedi scalzi. Sophia lo guarda cadere, il bicchiere. Sente il tonfo, lo vede infrangersi sul pavimento e, nello stesso istante, lei fa la medesima fine.
      Per tutto il romanzo, con il suo strano modo di camminare, Sophia vede esplicarsi al di fuori di sé la malattia genetica che porta dentro. Tutto è una perdita di equilibrio, in tutto c’è odore di arance rosse e succose che scivolano via dalle mani di un giocoliere e si infrangono sui pezzi di vetro. Ma chi è il giocoliere? È davvero chi crede Sophia?
      Attraverso flussi di pensiero, flashback, cambi di persona, decostruzioni e ricostruzioni, Sophia si rende conto che nulla era come credeva, che la ricerca di qualcuno implica sempre la ricerca di se stessi e che, forse, è proprio vero che si comincia dalla fine.
      – RobinEdizioni

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