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Scrittrice su due ruote, quattro quando non impenno
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    • Il Dissennatore

      Posted at 11:55 by fedepis, on aprile 18, 2020

      Non sono la persona più coraggiosa che io conosca però se mi dovessero chiedere di indicare chi è la persona più paurosa che io conosca, umilmente direi: “Io” ! Lo direi con una risata e non c’è da stupirsi, dico un sacco di cose ridendo. Alla mia migliore amica ho detto di avere una malattia degenerativa ridendo e lei mi ha chiesto che cazzo avessi da ridere. E non lo so che cazzo avessi da ridere ma comunque ho riso.

      Devo dire la verità: i primi anni della malattia sono stati incredibilmente proficui, con il senno di poi. Già da quando iniziai a fare le visite. Ho cominciato a soffrire di ansia e mi mettevo in quarantena da sola però ho avuto il coraggio di cambiare facoltà, ho fatto nuove amicizie, ho iniziato a scrivere su giornali online, ho scritto moltissimo, ho smesso di fingere l’amore. Ma, ecco, io non sentivo niente. La paura c’era indubbiamente ma spuntava solo con l’ansia e con il panico. Quando ho imparato a gestirle, non ne avevo tanta. C’ero ma non c’ero.

      Poi sono diventata la persona più paurosa che io conosca, come se il non ritrovarmi allo specchio, avesse fatto diventare il mondo una giungla e io non sono né Tarzan né Jane. Negli ultimi due anni ogni passo in meno che ho fatto, ogni volta che sono caduta, ogni volta che un movimento del corpo si è dissolto, è stato come ricoprire di sabbia parti di me, belle parti di me: La capacità di capire come fare comunque in un altro modo quello che non potevo più fare nel modo classico. Oppure ridere anche quando non c’era un cazzo da ridere, di vivere il mondo pazientemente, ribellandomi a buche e marciapiedi alti, bagni inagibili. Esprimere le mie idee e scrivere quello che mi andava, tipo le recensioni di film o serie tv anche se non so farlo ma mi piaceva e lo facevo. Scrivere in generale, scrivere lettere, amavo scrivere lettere, lo amo ancora. Forse ho smesso di guardare abbastanza gli altri, di questo non sono tanto sicura. Di me vedevo solo quello che non era più possibile fare.

      C’era un Dissennatore, la bacchetta era caduta troppo lontano, non riuscivo a strisciare per riprenderla e lanciare un Expecto Patronus.

      E stanotte causa difficoltà a dormire e a causa di pensieri troppo vecchi per poter fare bene, ho pensato che prima di iniziare a strisciare ho capito di essere la persona più paurosa che io conosca e che il mio Dissennatore è un pezzo di merda.

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    • Promemoria

      Posted at 20:15 by fedepis, on febbraio 15, 2020

      Spesso non ricordo gli impegni, o meglio: non ricordo quelli che prendo con me stessa, perciò inserisco sveglie e promemoria. Una oretta fa stavo per segnare un promemoria e scopro che domani 16 febbraio 2020 il mio cellulare mi avrebbe fatto sapere questo:

      Ricorda: chiedetevi ciò di cui avete bisogno

      So perché questo promemoria io l’abbia scritto al plurale ma non so cosa dovrebbe succedere domani e io non so neanche perché dovrebbe succedere qualcosa e non credo succederà nulla. Domani sarebbe stato solo domani e dubito sia una frase di mia creazione ma difficilmente credo al caso; credo fermamente nelle connessioni, nella bellezza collaterale, credo persino che senza malattia i miei rapporti umani non sarebbero stati quello che sono stati, nel bene e nel male.

      So per certo che oggi è stata una giornata idiota come molte altre in questo lungo periodo. So che la mia testa molto spesso non è un luogo comodo dove passare il tempo né per me né per gli altri che tengo al riparo. Io e i miei pensieri battagliamo ogni giorno. Non tutti ma alcuni sono proprio degli stronzi e banchettano con i loro pensieri contrari a mio discapito. Vengono e vanno via senza interessarsi del fatto che dovrei dormire, studiare, respirare, scrivere. Sanno che a volte le energie vanno centellinate, sanno che devo farlo adesso, perciò sembro una di quelle madri che cedono ai capricci di quei figli che sanno che più urlano e piangono, più ottengono. Ma in fondo credo che chiunque stia leggendo sappia cosa io voglia dire.

      So per certo che non posso ringraziare la persona che mi ha inconsapevolmente obbligato ad aprire l’app, mi prenderebbe per pazza e se fossi più strafottente lo farei. La ringrazierei perché dovrei ricordarmelo di chiedere ciò di cui ho bisogno alle persone che amo, che dovrei chiederlo a me stessa ciò di cui ho bisogno senza cercare disperatamente di essere qualcosa che alla fine dei conti non sono mai. Dovrei chiedermi la strafottenza, dovrei prendere le mie parole, le mie soddisfazioni, le mia sicurezza in me stessa, la consapevolezza di aver fatto cose giuste, a volte anche perfette, che dovrei prendermi il tempo per tutto quello che fa schifo.

      In questi giorni mi gira in testa la frase: sarò quercia! Ed è vero: io sarò quercia, anche se a volte su questo ho mentito ma lo sarò e in fondo un po’ lo sono. Forse è era questo il punto del promemoria, dire: sarò quercia, sono quercia ma posso comunque chiederti di cosa hai bisogno e tu puoi chiederlo a me. E possiamo darci quello di cui abbiamo bisogno anche se sono quercia.

      Non lo so, sta di fatto che il promemoria domani suonerà comunque.

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    • A me la pioggia piace

      Posted at 17:28 by fedepis, on novembre 19, 2019

      A Catania piove a dirotto da un paio d’ore e quando piove penso sempre che la pioggia mi piace un sacco. Ero abituata a camminare sotto la pioggia, l’ho fatto fino ai miei 20anni perché non avevo la macchina, mia madre non guida, quindi se dovevo andare da qualche parte dovevo prendere l’autobus che da me significa andare a piedi altrimenti cominci a germogliare alla fermata mentre aspetti.

      Dicevo: a me la pioggia piace, mi piace sentire l’odore di terra bagnata, mi piace vedere l’acqua fluire, in fondo mi piacciono pure le pozzanghere, il ticchettio delle gocce sulle finestre, sui balconi, il rumore delle ruote sull’asfalto bagnato, il fatto che il mondo rallenti. Mi piace stare sotto la pioggia, ma la pioggia è sempre la pioggia e la pioggia e certi tipi di malattie non vanno tanto d’accordo: si scivola di più, mi bagno di più io e chi mi accompagna perché non posso mettermi a correre e se ci sono fulmini magari si scombussola un po’ il servoscala. Però a me la pioggia piace, mi piace pensare all’ultima volta nella quale consapevolmente ho deciso di non aspettare che finisse di piovere. È amo profondamente quel ricordo anche se ero in sedia a rotelle, perché era stata bellissima la cena, era bellissima la persona che mi accompagnava, ed io ero felice… così felice che ci stava la pioggia, come se lei lo sapesse che ci stava, come se sapesse che avevo passato così tanto tempo ad avere paura di cadere per colpa sua, che ci stava. E ci stava anche la signora che guardandomi dall’alto, mentre uscivo dal ristorante, mi ha detto: “ma sta piovendo!” perché così ho potuto dirle: “Non si preoccupi, a me piace la pioggia!”

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    • 2p = 4l

      Posted at 12:31 by fedepis, on agosto 8, 2019

      Balliamo con poche pretese dentro un quadrato. Muovendoci sul posto con la mia testa sulla tua piccola giovane spalla destra e la tua testa sulla mia indecente giovane spalla destra, senza dirci niente di nuovo o di meglio che non sia il silenzio.

      Balliamo tra quattro angoli uguali mentre fuori terremoti, eruzioni, annegamenti e guerre, fanno crepare il nostro punto di appoggio e parliamo per non perdere il contatto, il controllo, gli occhi, per lasciar fuori la paura.

      Balliamo e chiami il futuro al mio orecchio e io sussurro sì al tuo orecchio, sul tuo collo, sul tuo petto. E ripetiamo sì sui nostri corpi, dentro quattro angoli uguali, fino a poterne calcolare il perimetro e l’area.

      Balliamo e i lati del quadrato diventano fottute lastre di cristallo che si romperanno frantumate dalle mie e tue urla. E ci feriranno lasciandoci cicatrici luccicanti al sapore di zenzero e limone.

      Balliamo, i piedi doloranti, con le braccia lungo il busto e le mani intrecciate alla fine di tutto, con le mie labbra sulle tue e le tue sulle mie per aiutarci tra un respiro e l’altro dentro un quadrato diventato rombo al ritmo di cadute, rivincite e armoniche

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    • Lettera alla mia ansia

      Posted at 11:48 by fedepis, on aprile 27, 2019

      Ho fatto i conti, ci conosciamo da 12 anni. Mi hai presa e trascinata con te in un vicolo che non avevo visto. Non conoscevo il tuo nome e cognome, la tua età. Soltanto dopo mesi riuscii a distinguere i lineamenti del tuo volto. Anche se passavi con me i giorni e le notti, anche se dividevamo i pasti e il letto come due amanti e avrei potuto trovarti ovunque; anche se i tuoi posti preferiti sono sempre stati sopra il mio petto e sotto la mia pelle, io non riuscivo a riconoscerti. Adesso invece, ti riconosco persino nel viso degli altri come me. È una questione di sguardo, di respiro, di postura, di paura.

      Non ti annoi a fare il tuo dovere togliendo l’aria, nascondendoti dietro il frigorifero della mia cucina, uscendo di colpo, facendo «BU!». Come se tu fossi una Trilli-cattiva spolveri sulla mia testa polvere nera che infonde paura di volare, di camminare, di mangiare, di impazzire tra i miei pensieri che sembrano gli uccelli di Hitchcock. Paura di ridere, di essere felice, di stare male e poi morire dentro, davanti a tutti. Per un po’ ho avuto paura che tutti potessero accorgersene e chiedermi il perché del tuo esistere. Non è facile spiegarlo se neanche io riesco a capire, non lo è se chi ti ascolta pensa che basterebbe non pensarti per farti sparire dentro una folata di vento. Così, pur odiandoti, non accettavo che gli altri non ti comprendessero o ti sottovalutassero, e mi lasciavi strappata tra la voglia di gridare e quella di nascondermi. Tanto valeva rimanere a casa.

      Arrivi su un carro che non ha bisogno nè di cavalli nè di cocchiere perché la vita si muove da sé. E ti sento arrivare e rimanere, approfittando della mia totale impossibilità di scappare e di non pesare e di non pensare. Sono definitivamente sporca, ti sei fusa con le mie debolezze. Il mio coraggio adesso ha più controllo ma ci sta così tanto a riacciuffarti che poi ha bisogno di riposare.

      Non è una lettera d’amore, non ti amerò mai, mi rovini i momenti migliori e peggiori i momenti peggiori. Mi fai perdere il poco controllo che ho del mio corpo. E ci ho messo anni ad avere del potere su di te, ad imparare a sopportarti, ad essere funzionale alla mia vita anche con te accanto. Sei causa di rabbia, lacrime e ti ho concesso di farmi fallire ma hai un solo pregio anzi due: sei un buon campanello d’allarme e un buon rimedio a tutti i coglioni del mondo.

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    • Lettera alla mia pazienza

      Posted at 11:37 by fedepis, on marzo 19, 2019

      Non ricordo quando ci siamo conosciute, in quale anfratto del mio passato. Sei l’unica parte di me con la quale non ho mai litigato, della quale mi sono sempre vantata. Ti porto sul petto come una medaglia al valore, come cicatrice. Il cielo mi guarda, mi insulta perché io distolgo lo sguardo per trovarti nella passeggiata che non farò, nel mar mediterraneo che vedo dalle vetrate della cucina e che in 30 anni non è mai stato brutto. Devo sempre trovarti da qualche parte, più di una volta al giorno, dentro un bicchiere di plastica riempito il giusto per poterlo reggere. Devo trovarti tra le mattonelle rosa del bagno, fredde sotto la mia guancia. Devo trovarti tra il vittimismo dilagante e il mio di vittimismo che vorrebbe urlare per riprendersi la sua rivincita. Nelle mie dita che battono sulla tastiera troppo lentamente e ancora non mi abituo. Devo trovarti nella paura perenne, nel dubbio, nei miei slanci di coraggio che si spengono, nei sensi di colpa, nelle parole che muoiono in gola soffocate dalla rabbia che devo monitorare e gestire perché sono disabile e non posso arrabbiarmi come e quando voglio, perché da sola muoio di fame e di sete, me la faccio addosso. Devo trovarti nella porta che non sbatterò, nelle scale che non scenderò di corsa per andarmi a sfogare.

      Tu non sei un concetto astratto, sei dea che si fa corpo, che esiste fin quando io ti permetterò di farlo. E come in tutti i rapporti divino-umano ci alimentiamo a vicenda. Mi usi come fossi la tua puttana, mi consumi come fossi quel golfino che dopo anni ti sta ancora a pennello. Devo credere in te anche quando non sembri nei paraggi. Ci rincorriamo senza rancore perché non ho scelta, perché tu fuggi, egli fugge, voi fuggite, essi fuggono ma io, noi, non fuggiamo mai dall’odio che a volte ho la sensazione di provare verso tutto quello che un errore genetico mi ha imposto. Probabilmente tu non sei infinita per chi può permettersi di non trovare da qualche parte ancora un po’ di te.

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    • Lettera di una dissolvenza

      Posted at 20:30 by fedepis, on febbraio 24, 2019

      Guarda come sono diventata, guarda come divento invisibile dietro la porta chiusa della nostra camera da letto. Divento insignificante seduta sul pavimento del corridoio, stupida mentre continuo a bussare ma non senti battiti. Non metti più lo zucchero nel caffè, neanche un pizzico. Hai ancora il mio sapore sulla punta della lingua? Oppure ingurgiti tutti quei caffè amari per cancellare anche il ricordo? Il mio modo goffo di chiederti l’amore e di restituirtelo.

      A nulla è servito lasciare il mio cuore sul tuo comodino, sotto una lampada che non accendi più. Non senti la mia voce che ti implora di cercarmi da qualche parte. Non senti più i miei capelli che ti solleticano la schiena. Il mio respiro che ti piace tanto. Quel modo drastico di chiudere ogni discussione per scrollarci un po’ di rabbia da dosso. Vedi il mio viso riflesso sulla porta finestra del nostro balcone? L’ho riempito di girasoli adesso affogati nella pioggia. Mi vedi sotto la pioggia accanto ai girasoli? Il mio sguardo ti segue come loro seguono il sole. Credi non ci sia più nulla che riconosceresti in me?

      Mi sciolgo dentro i cassetti pieni dei tuoi bozzetti abortiti della vita che mi hai insegnato a volere. Ho lasciato che tu facessi tutto, che mi trasformassi nel tuo amore destinato ed eterno, e ora mi cancelli come se io fossi un errore di distrazione. Lo spigolo sul quale hai sbattuto un fianco. Informami almeno del momento esatto dell’inizio della fine, quale parte di me è sparita per prima? Potrei tornare indietro, ripercorrere i nostri passi falsi.

      Disegnami sopra il muro del salotto, intaglia il mio profilo sulla porta d’entrata, suonami ad un piano, tirami fuori da un origami, ridammi il nome, il mio, così rinasco dalla tua bocca perché è lì che sono sparita. Rinomina le parti del mio corpo che vuole il tuo, ricostruisci te e me. Fallo adesso, pronunciami prima che tu finisca di leggere questa lettera. Ti lascio il tempo di ricordare il ti amo inaspettato e l’imbarazzo del primo bacio. Ti lascio il tempo di ripetere l’incontro di due esseri umani fatti a pezzi da fantasmi mai morti.

      (Photo by Kunj Parekh on Unsplash)

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      La maggior parte delle volte in cui un bicchiere di vetro ricolmo di acqua cade per terra, la colpa è della distrazione. Tornando indietro, in fondo, avremmo potuto evitarlo. Se non l’avessimo posizionato così vicino al bordo del tavolo, oppure se l’avessimo spostato in tempo, prima che il nostro gomito lo colpisse, non sarebbe mai caduto e noi non avremmo rischiato di ferirci camminando su dei pezzi di vetro a piedi scalzi. Sophia lo guarda cadere, il bicchiere. Sente il tonfo, lo vede infrangersi sul pavimento e, nello stesso istante, lei fa la medesima fine.
      Per tutto il romanzo, con il suo strano modo di camminare, Sophia vede esplicarsi al di fuori di sé la malattia genetica che porta dentro. Tutto è una perdita di equilibrio, in tutto c’è odore di arance rosse e succose che scivolano via dalle mani di un giocoliere e si infrangono sui pezzi di vetro. Ma chi è il giocoliere? È davvero chi crede Sophia?
      Attraverso flussi di pensiero, flashback, cambi di persona, decostruzioni e ricostruzioni, Sophia si rende conto che nulla era come credeva, che la ricerca di qualcuno implica sempre la ricerca di se stessi e che, forse, è proprio vero che si comincia dalla fine.
      – RobinEdizioni

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