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Scrittrice su due ruote, quattro quando non impenno
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    • Vasi comunicanti e altre cose a caso

      Posted at 19:41 by fedepis, on giugno 14, 2020

      Da quando sono malata mi sono accorta che la mia vita procede a scatti, ma che in fondo sia così per chiunque tranne per chi vuole che capiti sempre qualcosa, anche cose a caso, anche cose inutili, sofferenze inutili, finti amori inutili, scorciatoie che portano solo a strade che “non spuntano”. È così per tutti, e mi rendo conto che mi affanno a nasconderlo, a fare sempre qualcosa perché se fai qualcosa secondo la cultura di massa: stai bene! Ma posso stare bene anche senza fare niente.

      Per me è come se ogni tot tempo ci fosse un edizione speciale alla tv che dirama un lockdown. È come alzarsi ma stare comunque seduti, è come saltare sul letto ma qualche volta sbattere la testa nel tetto.

      E quando sto seduta… va beh io sono sempre seduta ma quando sto seduta dentro il mio corpo mi sembra di diventare una specie di contenitore, un pensatoio che potrebbe essere anche utile se la riproduzione della bacchetta magica di Harry Potter che ho nell’armadio funzionasse. Ma non funziona e io posso contenere tutto e tutti, i miei pensieri e i pensieri degli altri. Lo so, lo so non è un discorso umile ma non posso essere perfetta. Non si può contenere per sempre, non mi posso contenere per sempre, contenersi da soli non credo sia fattibile, perché tanto o si rompe da solo sto contenitore o qualcun altro toglie il tappo e finisce che succede un casino come con il vaso di Pandora, oppure che fai spuntino con il frutto sbagliato, fate voi…

      Allora penso che io non voglio contenere nessuno per intero e che non voglio che qualcuno contenga me per intero, io non voglio contenermi per intero, voglio avere la sincerità di dare e di ricevere pure da seduta, la libertà di versarmi in qualcuno e che qualcuno si versi in me raggiungendo lo stesso livello di qualsiasi cosa sarà il turno di contenere.

      Voglio “il principio dei vasi comunicanti”

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    • Il Dissennatore

      Posted at 11:55 by fedepis, on aprile 18, 2020

      Non sono la persona più coraggiosa che io conosca però se mi dovessero chiedere di indicare chi è la persona più paurosa che io conosca, umilmente direi: “Io” ! Lo direi con una risata e non c’è da stupirsi, dico un sacco di cose ridendo. Alla mia migliore amica ho detto di avere una malattia degenerativa ridendo e lei mi ha chiesto che cazzo avessi da ridere. E non lo so che cazzo avessi da ridere ma comunque ho riso.

      Devo dire la verità: i primi anni della malattia sono stati incredibilmente proficui, con il senno di poi. Già da quando iniziai a fare le visite. Ho cominciato a soffrire di ansia e mi mettevo in quarantena da sola però ho avuto il coraggio di cambiare facoltà, ho fatto nuove amicizie, ho iniziato a scrivere su giornali online, ho scritto moltissimo, ho smesso di fingere l’amore. Ma, ecco, io non sentivo niente. La paura c’era indubbiamente ma spuntava solo con l’ansia e con il panico. Quando ho imparato a gestirle, non ne avevo tanta. C’ero ma non c’ero.

      Poi sono diventata la persona più paurosa che io conosca, come se il non ritrovarmi allo specchio, avesse fatto diventare il mondo una giungla e io non sono né Tarzan né Jane. Negli ultimi due anni ogni passo in meno che ho fatto, ogni volta che sono caduta, ogni volta che un movimento del corpo si è dissolto, è stato come ricoprire di sabbia parti di me, belle parti di me: La capacità di capire come fare comunque in un altro modo quello che non potevo più fare nel modo classico. Oppure ridere anche quando non c’era un cazzo da ridere, di vivere il mondo pazientemente, ribellandomi a buche e marciapiedi alti, bagni inagibili. Esprimere le mie idee e scrivere quello che mi andava, tipo le recensioni di film o serie tv anche se non so farlo ma mi piaceva e lo facevo. Scrivere in generale, scrivere lettere, amavo scrivere lettere, lo amo ancora. Forse ho smesso di guardare abbastanza gli altri, di questo non sono tanto sicura. Di me vedevo solo quello che non era più possibile fare.

      C’era un Dissennatore, la bacchetta era caduta troppo lontano, non riuscivo a strisciare per riprenderla e lanciare un Expecto Patronus.

      E stanotte causa difficoltà a dormire e a causa di pensieri troppo vecchi per poter fare bene, ho pensato che prima di iniziare a strisciare ho capito di essere la persona più paurosa che io conosca e che il mio Dissennatore è un pezzo di merda.

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    • La ragazza sulla panchina

      Posted at 17:57 by fedepis, on novembre 27, 2019

      C’è una ragazza seduta su una panchina di una piazza anonima, avrà 17 anni, non mi vede, è lontana da me ma io non troppo da lei. Si è svegliata prima del solito questa mattina e al bar non c’è ancora neanche una sua compagna di classe. Fuma una merit sperando non la veda nessuno e intanto legge La Repubblica. A volte la guardo, è molto bella e dovrebbe saperlo prima che glielo dica qualcun altro, penso che dovrei dirglielo io così se ne convincerà e tutti gli altri servirebbero il minimo indispensabile. Dovrei dirle che con i suoi capelli lunghissimi ci farà di tutto fino a non volerli più. Che deve impegnarsi di più a scuola perché è comunque tra le migliori e in fondo potrebbe pure essere la migliore. Che non deve essere così timida, che deve mettersi in gioco adesso che potrebbe anche non farlo. Che deve muoversi più che può, correre più che può, giocare a pallavolo volo più che può, andare andare e andare più che può, anche a ballare con Flo.

      Dovrei dirle che un abbandono anche se importante non significa l’abbandono di tutti, che la rabbia ci sta tutta ma deve urlare le vere parole che le grattano la gola e che non deve credere che il silenzio sia la scelta più saggia. Dovrei avvicinarmi abbassare il giornale e dirle che non è scritto da nessuna parte che deve essere come gli altri, che gli uguali non esistono e non esisteranno mai, che è inutile fare finta che il suo amore sia diretto verso chi vogliono gli altri, non può perdere tempo. Che dovrebbe guardare chi ha voglia di guardare perché chi cazzo se ne frega, fare diversamente toglie solo energia. Dovrei farle nomi e cognomi, indicarle la strada.

      Dovrei avvertirla di abbracciare tutti, di memorizzarli quegli abbracci come fossero gli ultimi, perché un po’ lo saranno, di dare tutto l’amore che ha. Di scrivere ogni cosa, di imparare a camminare su fogli di carta e parole. Dovrei avvertirla che camminare a piedi nudi su sogni caduti fa solo un male fottuto. Che non deve avere troppa paura perché tanto se ne possono sempre avere altri di sogni. Che tutto andrà bene anche se tra bassi non calcolati e alti guadagnati.

      La sigaretta è quasi finita, un ultimo tiro, il giornale rimesso nello zaino, in lontananza vede qualcuno, si alza di scatto dalla panchina per raggiungerla, mi passerà accanto. In fondo conosco anche il suo nome ma non sono sicura di saperlo più pronunciare.

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    • E lei ride

      Posted at 22:34 by fedepis, on novembre 6, 2019

      Io odio la GNE e lei lo sa. La immagino uguale a me, più magra, con una muscolatura evidentemente allenata. Me la immagino non con i capelli corti come i miei ma lunghi, gli occhi più scuri e grandi dei miei e con un sorriso di merda perennemente stampato in volto. È sempre in piedi, credo lo faccia apposta per innervosirmi. Il suo sguardo è sempre nel mio e non lo distoglie mai, altrimenti non si divertirebbe.

      Io la odio e lo sa e più la odio più sorride, più la odio più scoppia in una risata fragorosa che mi fa impazzire perché somiglia alla mia di risata, allora mi copro la bocca sperando di coprire la sua. Lei non parla mai. Credo che in fondo non potrebbe farlo perché le parole sono tutte mie, almeno quelle le pretendo.

      Sorride ogni volta che il banco ha evidentemente vinto tutto e io ho perso. Quando le chiedo perché ha lei quello che dovrebbe essere mio, perché ci sono vuoti per colpa sua, perché dobbiamo vivere insieme per sempre se non l’ho scelta, perché vederla di fronte a me non sia sufficiente ma devo anche guardarla mentre mi rotola addosso. Perché rotola addosso anche a chi mi si dovrebbe sdraiare accanto. Ride se vede che mi nascondo sotto una tenda per proteggere l’esterno da entrambe e proteggere me da Lei. Sorride e mi fa una linguaccia anche quando guardandola dico: “cazzo, mi poteva andare peggio“

      Lei non parla poi però come le migliori stronze, mi prende la testa tra le mani e mi mostra tutto quello che ho fatto con lei mentre mi rotolava addosso, nonostante i miei muscoli nel suo di corpo. Mi mostra scene di vita “normale”, mi mostra voli in aereo, Londra, tempo che non ho perso, obiettivi raggiunti comunque. E quando io mi scuoto per liberarmi dalla sua presa, Lei stringe ancora di più e mi mostra i volti di chi probabilmente non avrei mai conosciuto senza di Lei, degli amori piccoli che sono stati sostituiti dall’amore grande che mi ha messo di fronte, di chi in fondo non l’ha vista e di chi poi l’ha vista troppo da vicino, di chi c’era prima di Lei e c’era mentre cercavano di capire chi fosse e c’era anche quando mi hanno detto il suo nome. Mi riempie la testa di risate e lacrime, di dolore mischiato a commozione e coraggio. E io le dico che odio non poterla odiare sempre, che odio il pensiero che in qualche motivo strano e paradossale, che io neanche capisco, dovrei esserle grata e Lei ride.

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    • Le mie mani sono stronze

      Posted at 21:28 by fedepis, on settembre 8, 2019

      Le mie mani sono stronze. Spesso le considero stronze: dipende da che lato le guardo, dalla posizione che hanno assunto senza che io me ne accorgessi. Dipende se quel giorno mi fanno male oppure no, se quel giorno mi permettono di scrivere oppure no, studiare oppure no. Alcune volte mi deludono perché non seguono il mio pensiero, perché l’azione che io ho perfettamente nella mente viene tradita da loro mentre la mettono in pratica.

      Io non ne avevo alcuna coscienza 3 – 4 anni fa: ci vuole un certo controllo per poter fare una carezza alla persona che si ama, per essere delicati. Per accarezzare la schiena soltanto con la punta delle dita, per poggiare una mano sul viso e dire : “andrà tutto bene!” Ci vuole il controllo delle dita, del palmo e dorso della mano, del polso e dell’avambraccio, della spalla. Pensate quando la carezza non basta per tranquillizzare quella persona: pensate a quanto controllo e forza comporti prenderle il viso tra le mani e baciarne le labbra.

      Le mie mani sono stronze perché sembra dicano che posso e invece poi non posso, che con loro così poco funzionanti io non sia più credibile, perché d’improvviso hanno reso vitale non dimenticare il contatto con un viso, delle labbra, un collo, delle braccia e una schiena .

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    • La leggerezza non si compra

      Posted at 9:42 by fedepis, on agosto 28, 2019

      Quando mi è stata diagnosticata la malattia ho dovuto prendere consapevolezza di una parte di me che sconoscevo. È proprio il mio dna fatto male, fatto così a cazzo. Piano piano ho iniziato a pensare che la malattia fosse come il colore dei capelli: “Fede sei malata, allo stesso modo hai i capelli castano scuro, è una parte di te”. I capelli cambiano ma puoi colorarli, e se diventano bianchi o grigi di solito si scopre che ci donano anche così. La malattia peggiora ma non mi dona anche così.
      Allora ho capito che la malattia non è come i capelli, per me la mia malattia, è come i miei occhi. È i miei occhi, assolutamente quelli per sempre.

      Dal momento della diagnosi in poi, tutto quello che ho guardato, che ho letto, le mie convinzioni, la mia testardaggine, la rabbia, il dolore, la gioia, le domande, le scelte, i corpi che ho abbracciato, i baci che ho dato, l’amore che ho dato e ricevuto, niente è stato più come prima. Non vedevo più come prima. Il mio riflesso non è più quello di prima. Quando mi specchio la malattia la ritrovo lì che affoga nella pupilla, senza morire.

      Qualche mese fa ho tagliato i capelli – dopo averli lasciati allungare – perché i miei occhi non mi riconoscevano più.

      Nel mio libro ho scritto

      “La leggerezza non si compra, pensi. Forse si conquista o si crea, si rincorre, si ruba. La leggerezza nel vivere è salvifica, è guaritrice, ma deve essere profonda. Una leggerezza matura, coscienziosa, che possa azzerare pentimenti e sensi di colpa successivi alla sua messa in pratica. Uno strumento, allora, sarà uno strumento, un optional, un bastone da passeggio.”

      Ci credevo, ci credo ancora e ci crede Sophia, la protagonista ma quando l’ho scritto non sapevo che avrei dovuto aggiungere che la leggerezza adesso, per me, passa dagli occhi. La paura passa dagli occhi e i miei occhi hanno palpebre che senza avvertire, a volte, si chiudono

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    • La bambina a testa in giù – 2 parte

      Posted at 11:08 by fedepis, on agosto 23, 2019

      «Chi sei?» Urlò la bambina

      L’animale lentamente sbadigliò «Bughi» disse flemmatico «Mi hai svegliato» 

      «Ma avevi gli occhi aperti» 

      «I bradipi dormono anche con gli occhi aperti» 

      «Che ci fai sul mio albero?» Chiese la bambina 

      Bughi ci mise due minuti buoni a mettersi appeso al ramo a testa in giù «Questo è il mio albero, non c’è dubbio. Ci sono nato e ci morirò» 

      «Starai per sempre lì?» 

      «Non ho motivo di lasciarlo… qui dormo e mangio, scendo solo per i bisogni. A proposito sei sdraiata sul mio water» 

      La bambina velocemente si mise sulle mani e si allontanò dal punto dove era sdraiata. Il bradipo scoppiò in una fragorosa e lenta risata «scherzavo, è dall’altro lato dell’albero» e chiuse gli occhi

      «Ehi ma dormi di nuovo?» 

      «Scusa ma devo dormire 19 ore… dove sono le tue zampe?»

      La bambina guardò i suoi monconi «Piedi… si chiamano piedi e non li ho, sono nata senza. Cammino sulle mani ma non posso proprio correre e andare dove voglio. Papà vuole regalarmi dei piedi ma ho paura che poi sarà tutto diverso e io ormai mi sto abituando.» 

      «Vabbè che importa? Guarda me! Sono lento ma felice» lungo sbadiglio «non ho mai visto altro se non questi rami e sono felice. Mangio solo foglie e sono felice. Non ho neanche bisogno di bere. Sono solo e sono felice.» 

      «Che noia!» 

      Il bradipo rise nuovamente e la bambina decise di rimettersi seduta per guardarlo meglio. A testa in giù lo vedeva male. Si sentiva offesa e arrabbiata con quell’animale lento e inutile. Non ridere di me, gli disse quasi sul punto di piangere. 

      «Devi abituarti! Sei come me! Non puoi certo rimanere tutta la vita sulle tue mani, cosa vedi a testa in giù?» 

      «Sei anche tu a testa in giù» 

      «Sono un bradipo, è la mia natura. Non mi interessa vedere niente, non mi interessano neanche i miei simili» La bambina guardò i propri monconi «Stai tranquilla, sarai felice come me» 

      Tutta la vita su un solo albero, senza vedere altra vegetazione, ingurgitando soltanto foglie, senza conoscere la sensazione della sete placata, senza parlare con qualcuno, chiunque. Senza avere un sogno. E quel bradipo i piedi li aveva, Erica li aveva guardati bene: erano enormi. Avrebbe potuto trovare e scalare alberi più alti e rigogliosi con quegli artigli. 

      «Non sono come te, avrei paura ad essere come te. Io sono una bambina curiosa, il mondo mi piace e anche i miei simili. Tipo, la mia maestra è divertente. La mia compagna di banco, quando sua madre le compra le caramelle, ne porta anche per me. Io non sono come te, io posso fare tutto.» Disse la bambina ma il bradipo aveva già chiuso gli occhi addormentandosi. 

      Erica allora decise di tornare verso la casa, ad aspettarla trovò suo padre che le sorrise e la prese in braccio. «Papà c’è un bradipo antipatico sul nostro albero» 

      Il padre guardò verso il giardino un po’ dubbioso «Amore mio non è possibile, i bradipi non riuscirebbero a vivere qui» 

      La bambina si girò verso l’albero  ma non vide nulla «Devo averlo sognato!» e pensò che aveva davvero fatto la fine di Alice.

      Suo padre la mise sopra la sedia, le chiese cosa avesse detto il bradipo e lui la ascoltò attentamente ma Erica non gli raccontò che aveva confidato al bradipo le sue paure. Le tenne per sé, un po’ per vergogna e un po’ perché aveva paura di farlo rattristare. 

      Passarono un paio di settimane ed Erica non vide più il bradipo, anche se ci pensava spesso. Sua madre a volte stava meglio e allora tutta la famiglia sedeva su una panca in giardino a guardare il tramonto. 

      Una mattina non buona per sua madre qualcuno bussò alla porta: era l’amica di suo padre che arrivò con un pacchetto regalo in mano. Erica la salutò e poi quella signora le porse il regalo. La bambina lo aprì emozionata, era una scatola e quando tolse il coperchio si mise a ridere. «Sono i miei piedi?» 

      «Eh sì! Li vuoi provare?» 

      «Papà!» 

      «Dimmi!» 

      «Posso continuare a dondolarmi a testa in giù e sfidare i miei amici a fare la verticale? E magari guardare il tramonto a testa in giù così sembra l’alba?» 

      «Sì, certo!» Suo papà sorrise 

      Erica velocemente alzò le gambe e porse i monconi alla donna che le infilò i suoi primi piedi. Suo padre non l’aveva mai vista così felice mentre compiva i suoi primi passi. Abbracciò la donna che le disse che l’avrebbe fatta anche correre e saltare.

      Erica spalancò la porta della stanza da letto «Mamma!». Sua madre si mise seduta sul letto, la guardò e sorrise «Se mi insegni a camminare, io ti insegno a guardare il tramonto a testa in giù, così ci sarà sempre l’alba» 

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    • La bambina a testa in giù – 1 Parte

      Posted at 19:30 by fedepis, on agosto 21, 2019

      Erica ha 8 anni, i capelli corti, arruffati e neri. Gli occhi castani guardano dietro occhiali da vista rotondi color verde chiaro. Le piace stare a testa in giù, andare in giro camminando sulle mani, anche a scuola. Soprattutto ama dondolarsi a testa in giù dall’altalena che suo padre ha messo in giardino. I suoi compagni di classe a volte provano a fare la verticale ma cadono sempre, nessuno ha l’equilibrio di Erica. 

      L’altro giorno Erica stava seduta sul tappeto del salotto per portare avanti una delle sue attività quotidiane: toccare i monconi che escono dai suoi pantaloni jeans. Quando è più triste le sembrano delle zampe di elefantino, quel giorno lo disse a suo padre che si arrabbiò. Il corpo di Erica, i piedi, non li aveva proprio presi in considerazione. «Tutti gli altri hanno i piedi.» rispose a suo padre «Tu e mamma avete i piedi, gli zii e persino la bis nonna ha i piedi anche se non li usa spesso per camminare. Posso dire cosa mi sembrano i miei non-piedi» Erica senza piedi era nata e senza piedi sarebbe rimasta. 

      Suo padre stava per risponderle ma qualcuno suonò alla porta; Entrò in casa una donna sorridente, sembrava simpatica ma Erica era così arrabbiata che sulle sue due mani si nascose dietro il divano. «Ehi!» la donna si mise a cavalcioni e si avvicinò al divano. Erica era a testa in giù, bloccata tra il muro e lo schienale del sofà. «Non stai un po’ scomoda?» chiese la donna 

      «Sto benissimo!» rispose Erica prima di starnutire fragorosamente. La donna rise 

      «Vieni da me, non ti farò nulla» 

      Erica disse qualche altra volta che non si sarebbe mossa da lì ma cominciò a starnutire così spesso che non ebbe altra scelta. Allora tornò sul tappeto, la donna si sedette accanto a lei. Passò le mani tra i capelli arruffati della bambina per liberarli dalla polvere. «Posso toccarli?» chiese riferendosi ai monconi. Erica allungò le gambe e la donna cominciò a studiarli con attenzione, li toccò e strinse tra due dita, facendole il solletico. 

      «A te non sembrano zampe di elefantino?» Chiese la bambina sorridendo

      «Oh!» La donna si allontanò per guardarli da un’altra prospettiva «Non saprei, può darsi». Quella incertezza a Erica piacque più di un categorico No, anche più di un categorico Sì. La bambina la lasciò fare, era divertita dalla curiosità di quella donna che la guardava camminare sulle mani come fosse un funambolo «Così non vedi tutto al contrario?» Chiese la donna. 

      «So riconoscere le cose dritte da quelle storte. Sono grande!» Sbottò Erica. Suo padre la rimproverò per la scortesia. «Scusa ma io sto bene così.» Disse la bambina 

      «Scusami anche tu. Non volevo farti innervosire». 

      Perché non poteva rimanere a testa in giù e guardare le cose come voleva? Sapeva perché quella donna fosse lì e sapeva cosa volesse suo padre ma Erica dei piedi tutti suoi, su misura, non li aveva mai voluti. 

      Erica ritornò a camminare sulle mani, si avvicinò alla porta socchiusa della camera da letto dei suoi genitori ed entrò mentre quella donna andava via. La stanza era buia e sul letto sdraiata su un fianco c’era sua madre che aveva sempre sonno e su quel materasso stava così comoda da voler vivere lì. Erica si avvicinò al letto e sua madre aprendo gli occhi vide i monconi davanti a sé. «Ti va il sangue al cervello». La bambina si mise seduta sul pavimento e si appese con le mani al piumone per salire sul letto, voleva raccontarle cosa fosse successo, ma appena sua madre si accorse di cosa la figlia stesse facendo e che era quasi riuscita a salire, allungò un braccio e afferrò la manina della bambina. «Ho bisogno di dormire!» le disse «Appena sarò sveglia ti chiamerò e staremo insieme» 

      «Va bene.» La mamma chiuse gli occhi e lasciò la mano della figlia che scivolò giù battendo la testa. Erica tornò sulle proprie mani e piangendo in silenzio uscì.

      Sempre a testa in giù, piena di rabbia, con i monconi fece cadere un vaso pieno di fiori finti che si trovava su un tavolino basso del salotto, poi fece cadere anche il tavolino, poi una sedia. Suo padre la guardò senza dirle niente. Erica corse in giardino ed esausta si lasciò andare sotto un folto albero. Mentre guardava le nuvole tra le foglie verdi sperò di addormentarsi facendo la fine di Alice.

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    • Lettera ad un corpo

      Posted at 17:05 by fedepis, on febbraio 17, 2019

      IMG_2763Le mie mani vanno a rallentatore mentre ti scrivo e così mi sembra che anche tu sia in slow motion nella mia mente. I tuoi sorrisi me li godo meglio e i tuoi occhi che guardano dove non guardo io, hanno quasi sapore. Nella mia mente parli lentamente, riesco a sentire il tuo accento confuso, solo tuo. Le tue parole sono un coltello che trapassa ogni strato del mio corpo e del mio cervello, così piano che sembra eterno un attimo prima che finisca di penetrare. Le mie mani vanno ancora a rallentatore, ti scrivo della mia immagine cambiata e di me che allo specchio ho dovuto riconoscermi nuovamente. Non c’è più nulla di quello che c’era prima di te, non c’è più l’orgoglio del passo o di quell’accento di sensualità che avrei potuto allenare. Non ci sono i movimenti che conoscevo a memoria, adesso niente è “come andare in bicicletta”, non c’è la possibilità di andare a passo con il tempo, non c’è la rabbia che il mio corpo vuole sfogare fuori da quattro mura, non c’è l’andare dove non mi vede nessuno. Tu mi guardi, mi intravedi, e io vorrei non essere vista se non come dico io. Non ho più gambe d’ambra ma polpacci rossi per una cattiva circolazione che trascina i miei sentimenti ad affogare in del sangue che non sintetizza quel preciso enzima.

      Per un po’ ho creduto che anche i miei sensi si fossero ammalati. Ho creduto che non avrei sentito nessun pezzo di corpo altrui. Ho creduto che non sarebbe stato possibile per me neanche percepire gli altri corpi. Forse accadeva veramente. A niente valeva impegnarmi nel sentirli, nel toccarli, nel guardarli, oltrepassarli ma in fondo per arrivare dove? Ho capito sai che la mia vera paura era non sentire più il mio di corpo, perderlo in movimenti incerti e spenti. Temevo di non sentire più la mia pelle ricoperta di acqua, la pelle d’oca, il dolore, i baci e i morsi. Come se perdere i movimenti significasse perdere i sensi.

      E così, ho sorvolato il tuo corpo, ho aspettato il tuo permesso per scivolarci sopra, a modo mio, per potermi ricordare delle mie braccia e delle mie gambe, del mio addome, del mio petto, della mia schiena, dell’incavo del collo. Scivolarti addosso è l’unico modo per capire che esisto ancora. Toccarti per non soffocare, desiderarti per perdermi, perdermi nel tuo corpo per ritrovare il mio.

      Le mie mani mentre ti scrivo vanno a rallentatore, riesci ad essere la mia gioia e il mio dolore in slow motion, in fondo quello che è sparito non può essere ricreato ma solo sostituito.

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    • Cara Fede,

      Posted at 13:06 by fedepis, on gennaio 9, 2019

      Sei dietro la mia sedia e le tue mani sono a un passo dalle mie spalle, sospese in attesa del mio consenso al tuo tocco. Non ho mai scritto una lettera a qualcuno che si trovasse così vicino. 

      Ho imparato che ammettere di aver sbagliato è meno stancante del trovare giustificazioni a ogni errore e lo ammetto: non ti rendo la vita facile, in questi trent’anni non ti ho mai dato tregua. La colpa non è mai stata la tua, non sei stata tu a farmi diventare così, ti ho trasformato nel mio carnefice perché io sono stata il tuo. In realtà sono stata io a farti del male, a torturarti, sfinirti per potermi sentire in colpa, ti ho stuzzicato così da poter dire che sono la povera vittima di una parte di me. 

      Li ricordo i giorni in cui riflessa nello specchio ti ho insultata per il futuro che credevo mi stessi promettendo, per i sogni che come pizzini mettevi in tasca senza neanche avvertirmi, per gli errori che inevitabilmente commettevo e che non riuscivo a perdonarmi. Ti ho fatto del male a ogni risata in modo che potessimo non goderne, illudendoti che non ce la meritassimo. Ti ho portato in letti scelti con poca attenzione e ho creduto che quella sensazione di star per sprofondare fosse colpa tua e invece no, era colpa mia ma ci voleva troppo coraggio per poggiare la testa sul cuscino giusto con la persona giusta. Mi sono rifiutata di ascoltarti quando coprirmi era il modo migliore per sparire, per non sentirmi all’altezza, alla tua altezza. Ho tagliato i capelli per non riconoscerti più. Ti ho dato la colpa per la mia paura che la bellezza delle cose finisca con uno schiocco di dita. Ti ho dato la colpa per tutto quell’amore che non comprendevo, per l’amore che finiva, che non respiravo più. Io non respiravo più e ti davo la colpa. 

      Mi sono illusa che tu non fossi più parte di me, credevo di averti perso dentro la carpetta con i risultati delle visite mediche, nell’ansia sotto pelle, nel tempo che lanciato come una palla pazza mi sfuggiva, ma io lo so che invece sei la parte migliore di me. Sei tutti i miei traguardi raggiunti, sei il coraggio che ci vuole per prendere una via diversa, sei il perdono di cui non sapevo di essere capace, le mie abitudini. Sei i cartoni a Natale, Harry Potter e la musica ad alto volume, sei le piccolissime barchette di carta che regalavo a chiunque, le lettere che scrivevo da ragazzina rigorosamente con la penna blu, sei le facce buffe che io e A. ci scambiamo per ricordarci che siamo state bambine per troppo poco tempo ma possiamo esserlo ancora. Sei i racconti, le poesie, i romanzi, i baci sul naso. 

      Ti chiedo scusa perché ho fatto finta di non saperlo ma lo so! Tu sei la mia storia, sei il mio “nonostante tutto”.

                                                    Tua per sempre, 

      Federica

      Inviato su GNE GNE GNE! | 4 commenti | Tag disabilità, disability
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      La maggior parte delle volte in cui un bicchiere di vetro ricolmo di acqua cade per terra, la colpa è della distrazione. Tornando indietro, in fondo, avremmo potuto evitarlo. Se non l’avessimo posizionato così vicino al bordo del tavolo, oppure se l’avessimo spostato in tempo, prima che il nostro gomito lo colpisse, non sarebbe mai caduto e noi non avremmo rischiato di ferirci camminando su dei pezzi di vetro a piedi scalzi. Sophia lo guarda cadere, il bicchiere. Sente il tonfo, lo vede infrangersi sul pavimento e, nello stesso istante, lei fa la medesima fine.
      Per tutto il romanzo, con il suo strano modo di camminare, Sophia vede esplicarsi al di fuori di sé la malattia genetica che porta dentro. Tutto è una perdita di equilibrio, in tutto c’è odore di arance rosse e succose che scivolano via dalle mani di un giocoliere e si infrangono sui pezzi di vetro. Ma chi è il giocoliere? È davvero chi crede Sophia?
      Attraverso flussi di pensiero, flashback, cambi di persona, decostruzioni e ricostruzioni, Sophia si rende conto che nulla era come credeva, che la ricerca di qualcuno implica sempre la ricerca di se stessi e che, forse, è proprio vero che si comincia dalla fine.
      – RobinEdizioni

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