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Scrittrice su due ruote, quattro quando non impenno
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    • 1-1-2021

      Posted at 12:48 by fedepis, on gennaio 1, 2021

      È il primo Gennaio 2021, si dice che i pensieri non puoi fermarli la notte, che la notte diventano prepotenti e il silenzio ne aumenta il volume, che spesso le idee migliori arrivino di notte e allora se si è artisti è bene avere sempre qualcosa a portata di mano sulla quale poter prendere appunti, perché poi la mattina potresti non ricordare più bene. É una bugia! Le idee migliori, le illuminazioni inaspettate arrivano per di più quando si è al bagno.

      Ci potrei mettere la mano sul fuoco di quanta ispirazione sia stata imputata, mentendo, a una notte piovosa passata sotto le coperte da soli, seduti su una poltrona con un bicchiere di vino in mano, a una passeggiata lungo il Danubio oppure a un panorama da togliere il fiato e invece il genio artistico era semplicemente al bagno. Che poi, ammetterlo avrebbe solo potuto farne aumentare l’ammirazione altrui.

      E niente oggi è il primo Gennaio 2021 ed ero al bagno, e ho pensato a questo 2020. Che poi riflettendoci bene: dove vuoi pensarlo, in parte, il 2020 se non al bagno? Comunque ho avuto una illuminazione, ho già scritto che quest’anno, sono successe anche cose bellissime. Le ho chiare nella mia testa, alcune di queste cose hanno nomi di persone, qualcuna ha solo il mio nome. Poi ce n’è una che non ha nome, mi sono resa conto che ad un certo punto ho deciso di smettere di vivere dentro il mio corpo malato, metaforicamente! Metaforicamente ho traslocato dentro la mia testa, ho smesso di lasciare che la GNE diventasse un limite, non ho smesso di avere paura, ma ho, forse tardi, capito come usare il mio limite. Lo ammetto! Sono una di quelle persone che hanno considerato per qualche tempo più facile rifugiarsi nella paura piuttosto che in tutto il resto perché in fondo se stai già lì, niente può andare male. La felicità, quello che amiamo ha consistenza di cristallo, la paura è piombo.

      Ma il cristallo salva dal piombo, e la mia origine è il mio cristallo, l’amore che posso dare e ricevere nonostante tutto. Una corda spessa da non mollare. La consapevolezza che posso essere costante, che posso guardare dritto e non mollare la presa, provarci e riuscirci. Andare oltre i miei fottuti geni. La mia origine è le mie storie, la mia storia, il cinema e il fatto che sia stato il mio rifugio. Perché il cinema é mio padre, anche se non lo sa, è il modo che conoscevamo per sopperire alla mancanza di coraggio, al vuoto riempito da sensi di colpa, all’abbandono a rilascio lento.

      Adesso il cinema è me stessa oltre di me, oltre i miei muscoli, oltre il mio essere silenziosa e distratta, è la collocazione della mia distrazione e del mio silenzio, il rifugio dal piombo e la sua sdrammatizzazione. Le mie parole che si rinvigoriscono. È io che ballo, io che corro, io che ci provo e ci riesco. È la stanza di cui ha parlato Virginia Woolf … è la stanza tutta per me.

      Non vi auguro solo un buon 2021, vi auguro sempre di guardare avanti, di avere illuminazioni anche al bagno, di coccolare la vostra felicità, come fosse il cristallo di luna e foste Sailor Moon. Vi auguro di trovare un cristallo che vi faccia lasciare il piombo, di trovare la vostra e solo vostra corda da tenere stretta e non lasciare mai neanche quando vi dicono che non è cosa per voi, anche quando crederete di non avere più le forze, di aver perso il tempo giusto. Vi auguro di riutilizzare i vostri limiti e di non avere paura della paura.

      Inviato su LETTERE A CORPI INCLUSI | 4 commenti | Tag amore, capodanno, disabilità
    • A tempo perso

      Posted at 17:33 by fedepis, on luglio 11, 2020

      Io e il tempo! Ci penso spesso a noi due, a me e al tempo intendo. Ad una certa età, con una malattia un po’ degenerativa, viene spontaneo pensarci, così, a tempo perso. Penso al mio di tempo, se la mattina dopo mi sveglierò inseguendolo o con lui che mi insegue. Se andremo all’unisono rispettando le distanze per non mischiarci troppo. Se sarà una staffetta o un tranquillo giro di campo.

      Penso a quando l’ho odiato e poi è sparito lasciando errori e nessuna gomma da cancellare. A come gira e balla sui miei nervi, come mi butta addosso l’istinto di fare velocemente qualcosa o di farlo lentamente, di lasciarlo scorrere come se io potessi scorrere su di lui. Penso alle sue illusioni.

      Penso a tutte le volte nelle quali ha ricominciato a muoversi e io ero sempre diversa perché lui si mette sempre qualcosa in tasca e qualcosa la lascia. Penso che mi posiziona di fronte sempre più malattia ma che magari un giorno lui se la porterà via per sempre e non proverà a restituirmela.

      Penso che si è innamorato dei miei bellissimi sogni e siccome l’amore è amore, ha pensato di tenerseli per sé scambiandoli con la GNE, senza lasciarmeli guardare bene per l’ultima volta, senza darmi il tempo per qualche compromesso. «Eh ragazza, i colpi di fulmine non si prevedono», mi ha detto soddisfatto.

      Forse non me lo meritavo, forse neanche me li meritavo, e non lo sapevo. Ne ho fatte collane dei miei sogni così lunghe da inciamparci quando non lo faceva la malattia. Intorno al collo avrei potuto guardarli e sentirli comunque.

      Poi un pomeriggio, tra un chiosco e un cane che pisciava, mi ha urlato che sono una stupida rompi palle, che non capisco niente, che il merito non c’entra, che mi merito quello che voglio e pure le collane sulle quali inciampare perché magari capisco che è il momento di toglierle e farci quello che si fa con i sogni. Che io me li meritavo i miei sogni ma doveva prendersene cura mentre io mi prendevo cura di me, così che potessi imparare il cambio di prospettiva e i miei occhi.

      «Te li restituisco i tuoi sogni bellissimi e capaci, stronza malapensante!»

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    • Lista di cose da riprendere

      Posted at 19:40 by fedepis, on giugno 19, 2020

      • Il balsamo per quando vorrò sprofondare tra i miei capelli

      • Il cuscino morbido per quando vorrò far sprofondare pure il cervello

      • Il gommone di salvataggio per quando quasi affogo

      • La respirazione bocca a bocca per quando ho bevuto troppo

      • Le chiusure di sicurezza per quando vorrò aprire i cassetti e gli sportelli sbagliati

      • I gommini per quando mi vorrò trascinare senza farmi sentire

      • Il mantello dell’invisibilità per quando non vorrò farmi trovare

      • Il mio stesso abbraccio per quando avrò paura del buio

      • “Giù la testa” fischiettata per quando non riuscirò a dormire

      • Le catene per quando vorrei raggiungere delle sirene stronze

      • Hermione per quando i miei Harry e Ron non saranno in grado di salvarmi

      • Uno stecco di legno per quando non riuscirò a tenermi in piedi

      • Un corpo incluso per quando mi sentirò esclusa

      • Onomatopee per quando non avrò parole

      • Sancho Panza quando avrò bisogno di essere assecondata

      • Un paio di occhiali da sole per quando sarò accecata

      • Un paio di cuffie per quando non vorrò sentire

      • La mia voce per quando sarò arrabbiata

      • Le mie lacrime per quando avrò paura, per quando sarò felice

      • La mia tenerezza per quando non mi sentirò abbastanza

      • Le mie battute stupide per quando la GNE sarà troppo

      • I pezzi di cuore, del mio cuore, per sempre, per tutto

      Inviato su Senza categoria | 0 commenti | Tag amore, disabilità, lgbt
    • Il Dissennatore

      Posted at 11:55 by fedepis, on aprile 18, 2020

      Non sono la persona più coraggiosa che io conosca però se mi dovessero chiedere di indicare chi è la persona più paurosa che io conosca, umilmente direi: “Io” ! Lo direi con una risata e non c’è da stupirsi, dico un sacco di cose ridendo. Alla mia migliore amica ho detto di avere una malattia degenerativa ridendo e lei mi ha chiesto che cazzo avessi da ridere. E non lo so che cazzo avessi da ridere ma comunque ho riso.

      Devo dire la verità: i primi anni della malattia sono stati incredibilmente proficui, con il senno di poi. Già da quando iniziai a fare le visite. Ho cominciato a soffrire di ansia e mi mettevo in quarantena da sola però ho avuto il coraggio di cambiare facoltà, ho fatto nuove amicizie, ho iniziato a scrivere su giornali online, ho scritto moltissimo, ho smesso di fingere l’amore. Ma, ecco, io non sentivo niente. La paura c’era indubbiamente ma spuntava solo con l’ansia e con il panico. Quando ho imparato a gestirle, non ne avevo tanta. C’ero ma non c’ero.

      Poi sono diventata la persona più paurosa che io conosca, come se il non ritrovarmi allo specchio, avesse fatto diventare il mondo una giungla e io non sono né Tarzan né Jane. Negli ultimi due anni ogni passo in meno che ho fatto, ogni volta che sono caduta, ogni volta che un movimento del corpo si è dissolto, è stato come ricoprire di sabbia parti di me, belle parti di me: La capacità di capire come fare comunque in un altro modo quello che non potevo più fare nel modo classico. Oppure ridere anche quando non c’era un cazzo da ridere, di vivere il mondo pazientemente, ribellandomi a buche e marciapiedi alti, bagni inagibili. Esprimere le mie idee e scrivere quello che mi andava, tipo le recensioni di film o serie tv anche se non so farlo ma mi piaceva e lo facevo. Scrivere in generale, scrivere lettere, amavo scrivere lettere, lo amo ancora. Forse ho smesso di guardare abbastanza gli altri, di questo non sono tanto sicura. Di me vedevo solo quello che non era più possibile fare.

      C’era un Dissennatore, la bacchetta era caduta troppo lontano, non riuscivo a strisciare per riprenderla e lanciare un Expecto Patronus.

      E stanotte causa difficoltà a dormire e a causa di pensieri troppo vecchi per poter fare bene, ho pensato che prima di iniziare a strisciare ho capito di essere la persona più paurosa che io conosca e che il mio Dissennatore è un pezzo di merda.

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    • Pensieri sul corpo

      Posted at 12:58 by fedepis, on aprile 6, 2020

      Ho sentito la chiave girare nella serratura della porta, avevo lasciato loro le chiavi perché sono masochista e adesso i miei pensieri si sono chiusi dentro casa, come tutti noi. Dispersi sul mio corpo che è tutto ciò di cui hanno bisogno.

      Giocano su un’altalena che è qui nel mio stomaco e si sfidano a lanciarsi per aria per vedere chi cade in piedi, integro.

      Uno legge un manuale su un leggìo di legno poggiato su una scrivania, proprio in mezzo al mio cuore. Ogni tanto smette di studiare, mi guarda e comincia a ripetere ossessivamente le stesse frasi con un ghigno rabbioso.

      Altri ancora passeggiano sulla mia fronte, sembrano baci ma se mi distraggo diventano spilli e poi di nuovo baci.

      Due giocano al tiro alla fune con la collana che ho al collo per vedere chi potrà dormire sulle mie clavicole. Non so se sono più smemorati o stronzi ma ogni giorno tirano forte, a volte così forte che quasi soffoco finché non si ricordano che ne hanno una a testa di clavicola.

      Uno tira fuori una margherita dalla tasca, sospira, si siede sul mio muscolo pelvico, sospira di nuovo, incrocia le gambe e inizia il suo m’ama o non m’ama.

      Un altro è sulla mia testa che guarda film e ne immagina infiniti usando i miei capelli come un tappeto sul quale sdraiarsi e stare comodo.

      Sulle mie spalle altre due scrivanie ognuna per un pensiero. Uno ha una penna blu in mano e scrive poesie e storie, scrive se stesso senza pensarci troppo. L’altro scrive al computer, non mi sente perché ha la musica a palla, e le sue dita scorrono veloci sui tasti, a volte chiude gli occhi e muove il collo come se le idee provenissero dalla colonna vertebrale.

      Sui miei addominali si giocano partite di pallavolo, non hanno più di 15 anni questi pensieri. Alla fine non si capisce mai chi vince e in realtà non frega niente a nessuno. Poi si torna in classe e due di loro si nascondono in bagno per fumare, uno guarda, l’altro no.

      Molti sono ricercatori d’oro che affondano le mani nelle mie cosce e nei mie polpacci, bicipiti e tricipiti. Cercano qualche pezzo di muscolo ma i loro setacci sono sempre più vuoti e silenziosi.

      Ho pensieri sui miei palmi, tra le linee dell’amore, della vita, tra le mie dita. Si sfiorano tra loro, vestiti e no, presi da amori diversi. C’è chi ride, chi piange, chi sospira e chi si muove muto.

      Sulla mia schiena, le mie scapole diventano la panchina per il più piccolo dei miei pensieri, il più piccolo e il più vecchio. Rimane lì, assomigliandomi più di tutti. Ha i miei occhi, i miei desideri, i miei sensi di colpa, la mia speranza fatta rabbia. Vigila tutti tra un libro e l’altro. Qualche volta prende una fionda, degli orsetti haribo e dei kiwiwini che lancia a destra a sinistra, sotto e sopra. Così addormenta il pensiero nel cuore, sbilancia uno dei giocatori del tiro alla fune, sfama i ricercatori d’oro, salva un po’ di margherite, i pensieri sulla fronte diventano tutti baci, la partita di pallavolo si riempie di risate e quei due che fumano si scambiano un po’ di zucchero. Per ultimo dà da mangiare al pensiero sulla mia testa. Poi si sdraia sui libri tra le mie scapole e torna a leggere.

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    • Promemoria

      Posted at 20:15 by fedepis, on febbraio 15, 2020

      Spesso non ricordo gli impegni, o meglio: non ricordo quelli che prendo con me stessa, perciò inserisco sveglie e promemoria. Una oretta fa stavo per segnare un promemoria e scopro che domani 16 febbraio 2020 il mio cellulare mi avrebbe fatto sapere questo:

      Ricorda: chiedetevi ciò di cui avete bisogno

      So perché questo promemoria io l’abbia scritto al plurale ma non so cosa dovrebbe succedere domani e io non so neanche perché dovrebbe succedere qualcosa e non credo succederà nulla. Domani sarebbe stato solo domani e dubito sia una frase di mia creazione ma difficilmente credo al caso; credo fermamente nelle connessioni, nella bellezza collaterale, credo persino che senza malattia i miei rapporti umani non sarebbero stati quello che sono stati, nel bene e nel male.

      So per certo che oggi è stata una giornata idiota come molte altre in questo lungo periodo. So che la mia testa molto spesso non è un luogo comodo dove passare il tempo né per me né per gli altri che tengo al riparo. Io e i miei pensieri battagliamo ogni giorno. Non tutti ma alcuni sono proprio degli stronzi e banchettano con i loro pensieri contrari a mio discapito. Vengono e vanno via senza interessarsi del fatto che dovrei dormire, studiare, respirare, scrivere. Sanno che a volte le energie vanno centellinate, sanno che devo farlo adesso, perciò sembro una di quelle madri che cedono ai capricci di quei figli che sanno che più urlano e piangono, più ottengono. Ma in fondo credo che chiunque stia leggendo sappia cosa io voglia dire.

      So per certo che non posso ringraziare la persona che mi ha inconsapevolmente obbligato ad aprire l’app, mi prenderebbe per pazza e se fossi più strafottente lo farei. La ringrazierei perché dovrei ricordarmelo di chiedere ciò di cui ho bisogno alle persone che amo, che dovrei chiederlo a me stessa ciò di cui ho bisogno senza cercare disperatamente di essere qualcosa che alla fine dei conti non sono mai. Dovrei chiedermi la strafottenza, dovrei prendere le mie parole, le mie soddisfazioni, le mia sicurezza in me stessa, la consapevolezza di aver fatto cose giuste, a volte anche perfette, che dovrei prendermi il tempo per tutto quello che fa schifo.

      In questi giorni mi gira in testa la frase: sarò quercia! Ed è vero: io sarò quercia, anche se a volte su questo ho mentito ma lo sarò e in fondo un po’ lo sono. Forse è era questo il punto del promemoria, dire: sarò quercia, sono quercia ma posso comunque chiederti di cosa hai bisogno e tu puoi chiederlo a me. E possiamo darci quello di cui abbiamo bisogno anche se sono quercia.

      Non lo so, sta di fatto che il promemoria domani suonerà comunque.

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    • La ragazza sulla panchina

      Posted at 17:57 by fedepis, on novembre 27, 2019

      C’è una ragazza seduta su una panchina di una piazza anonima, avrà 17 anni, non mi vede, è lontana da me ma io non troppo da lei. Si è svegliata prima del solito questa mattina e al bar non c’è ancora neanche una sua compagna di classe. Fuma una merit sperando non la veda nessuno e intanto legge La Repubblica. A volte la guardo, è molto bella e dovrebbe saperlo prima che glielo dica qualcun altro, penso che dovrei dirglielo io così se ne convincerà e tutti gli altri servirebbero il minimo indispensabile. Dovrei dirle che con i suoi capelli lunghissimi ci farà di tutto fino a non volerli più. Che deve impegnarsi di più a scuola perché è comunque tra le migliori e in fondo potrebbe pure essere la migliore. Che non deve essere così timida, che deve mettersi in gioco adesso che potrebbe anche non farlo. Che deve muoversi più che può, correre più che può, giocare a pallavolo volo più che può, andare andare e andare più che può, anche a ballare con Flo.

      Dovrei dirle che un abbandono anche se importante non significa l’abbandono di tutti, che la rabbia ci sta tutta ma deve urlare le vere parole che le grattano la gola e che non deve credere che il silenzio sia la scelta più saggia. Dovrei avvicinarmi abbassare il giornale e dirle che non è scritto da nessuna parte che deve essere come gli altri, che gli uguali non esistono e non esisteranno mai, che è inutile fare finta che il suo amore sia diretto verso chi vogliono gli altri, non può perdere tempo. Che dovrebbe guardare chi ha voglia di guardare perché chi cazzo se ne frega, fare diversamente toglie solo energia. Dovrei farle nomi e cognomi, indicarle la strada.

      Dovrei avvertirla di abbracciare tutti, di memorizzarli quegli abbracci come fossero gli ultimi, perché un po’ lo saranno, di dare tutto l’amore che ha. Di scrivere ogni cosa, di imparare a camminare su fogli di carta e parole. Dovrei avvertirla che camminare a piedi nudi su sogni caduti fa solo un male fottuto. Che non deve avere troppa paura perché tanto se ne possono sempre avere altri di sogni. Che tutto andrà bene anche se tra bassi non calcolati e alti guadagnati.

      La sigaretta è quasi finita, un ultimo tiro, il giornale rimesso nello zaino, in lontananza vede qualcuno, si alza di scatto dalla panchina per raggiungerla, mi passerà accanto. In fondo conosco anche il suo nome ma non sono sicura di saperlo più pronunciare.

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    • A me la pioggia piace

      Posted at 17:28 by fedepis, on novembre 19, 2019

      A Catania piove a dirotto da un paio d’ore e quando piove penso sempre che la pioggia mi piace un sacco. Ero abituata a camminare sotto la pioggia, l’ho fatto fino ai miei 20anni perché non avevo la macchina, mia madre non guida, quindi se dovevo andare da qualche parte dovevo prendere l’autobus che da me significa andare a piedi altrimenti cominci a germogliare alla fermata mentre aspetti.

      Dicevo: a me la pioggia piace, mi piace sentire l’odore di terra bagnata, mi piace vedere l’acqua fluire, in fondo mi piacciono pure le pozzanghere, il ticchettio delle gocce sulle finestre, sui balconi, il rumore delle ruote sull’asfalto bagnato, il fatto che il mondo rallenti. Mi piace stare sotto la pioggia, ma la pioggia è sempre la pioggia e la pioggia e certi tipi di malattie non vanno tanto d’accordo: si scivola di più, mi bagno di più io e chi mi accompagna perché non posso mettermi a correre e se ci sono fulmini magari si scombussola un po’ il servoscala. Però a me la pioggia piace, mi piace pensare all’ultima volta nella quale consapevolmente ho deciso di non aspettare che finisse di piovere. È amo profondamente quel ricordo anche se ero in sedia a rotelle, perché era stata bellissima la cena, era bellissima la persona che mi accompagnava, ed io ero felice… così felice che ci stava la pioggia, come se lei lo sapesse che ci stava, come se sapesse che avevo passato così tanto tempo ad avere paura di cadere per colpa sua, che ci stava. E ci stava anche la signora che guardandomi dall’alto, mentre uscivo dal ristorante, mi ha detto: “ma sta piovendo!” perché così ho potuto dirle: “Non si preoccupi, a me piace la pioggia!”

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    • E lei ride

      Posted at 22:34 by fedepis, on novembre 6, 2019

      Io odio la GNE e lei lo sa. La immagino uguale a me, più magra, con una muscolatura evidentemente allenata. Me la immagino non con i capelli corti come i miei ma lunghi, gli occhi più scuri e grandi dei miei e con un sorriso di merda perennemente stampato in volto. È sempre in piedi, credo lo faccia apposta per innervosirmi. Il suo sguardo è sempre nel mio e non lo distoglie mai, altrimenti non si divertirebbe.

      Io la odio e lo sa e più la odio più sorride, più la odio più scoppia in una risata fragorosa che mi fa impazzire perché somiglia alla mia di risata, allora mi copro la bocca sperando di coprire la sua. Lei non parla mai. Credo che in fondo non potrebbe farlo perché le parole sono tutte mie, almeno quelle le pretendo.

      Sorride ogni volta che il banco ha evidentemente vinto tutto e io ho perso. Quando le chiedo perché ha lei quello che dovrebbe essere mio, perché ci sono vuoti per colpa sua, perché dobbiamo vivere insieme per sempre se non l’ho scelta, perché vederla di fronte a me non sia sufficiente ma devo anche guardarla mentre mi rotola addosso. Perché rotola addosso anche a chi mi si dovrebbe sdraiare accanto. Ride se vede che mi nascondo sotto una tenda per proteggere l’esterno da entrambe e proteggere me da Lei. Sorride e mi fa una linguaccia anche quando guardandola dico: “cazzo, mi poteva andare peggio“

      Lei non parla poi però come le migliori stronze, mi prende la testa tra le mani e mi mostra tutto quello che ho fatto con lei mentre mi rotolava addosso, nonostante i miei muscoli nel suo di corpo. Mi mostra scene di vita “normale”, mi mostra voli in aereo, Londra, tempo che non ho perso, obiettivi raggiunti comunque. E quando io mi scuoto per liberarmi dalla sua presa, Lei stringe ancora di più e mi mostra i volti di chi probabilmente non avrei mai conosciuto senza di Lei, degli amori piccoli che sono stati sostituiti dall’amore grande che mi ha messo di fronte, di chi in fondo non l’ha vista e di chi poi l’ha vista troppo da vicino, di chi c’era prima di Lei e c’era mentre cercavano di capire chi fosse e c’era anche quando mi hanno detto il suo nome. Mi riempie la testa di risate e lacrime, di dolore mischiato a commozione e coraggio. E io le dico che odio non poterla odiare sempre, che odio il pensiero che in qualche motivo strano e paradossale, che io neanche capisco, dovrei esserle grata e Lei ride.

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    • Le mie mani sono stronze

      Posted at 21:28 by fedepis, on settembre 8, 2019

      Le mie mani sono stronze. Spesso le considero stronze: dipende da che lato le guardo, dalla posizione che hanno assunto senza che io me ne accorgessi. Dipende se quel giorno mi fanno male oppure no, se quel giorno mi permettono di scrivere oppure no, studiare oppure no. Alcune volte mi deludono perché non seguono il mio pensiero, perché l’azione che io ho perfettamente nella mente viene tradita da loro mentre la mettono in pratica.

      Io non ne avevo alcuna coscienza 3 – 4 anni fa: ci vuole un certo controllo per poter fare una carezza alla persona che si ama, per essere delicati. Per accarezzare la schiena soltanto con la punta delle dita, per poggiare una mano sul viso e dire : “andrà tutto bene!” Ci vuole il controllo delle dita, del palmo e dorso della mano, del polso e dell’avambraccio, della spalla. Pensate quando la carezza non basta per tranquillizzare quella persona: pensate a quanto controllo e forza comporti prenderle il viso tra le mani e baciarne le labbra.

      Le mie mani sono stronze perché sembra dicano che posso e invece poi non posso, che con loro così poco funzionanti io non sia più credibile, perché d’improvviso hanno reso vitale non dimenticare il contatto con un viso, delle labbra, un collo, delle braccia e una schiena .

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      La maggior parte delle volte in cui un bicchiere di vetro ricolmo di acqua cade per terra, la colpa è della distrazione. Tornando indietro, in fondo, avremmo potuto evitarlo. Se non l’avessimo posizionato così vicino al bordo del tavolo, oppure se l’avessimo spostato in tempo, prima che il nostro gomito lo colpisse, non sarebbe mai caduto e noi non avremmo rischiato di ferirci camminando su dei pezzi di vetro a piedi scalzi. Sophia lo guarda cadere, il bicchiere. Sente il tonfo, lo vede infrangersi sul pavimento e, nello stesso istante, lei fa la medesima fine.
      Per tutto il romanzo, con il suo strano modo di camminare, Sophia vede esplicarsi al di fuori di sé la malattia genetica che porta dentro. Tutto è una perdita di equilibrio, in tutto c’è odore di arance rosse e succose che scivolano via dalle mani di un giocoliere e si infrangono sui pezzi di vetro. Ma chi è il giocoliere? È davvero chi crede Sophia?
      Attraverso flussi di pensiero, flashback, cambi di persona, decostruzioni e ricostruzioni, Sophia si rende conto che nulla era come credeva, che la ricerca di qualcuno implica sempre la ricerca di se stessi e che, forse, è proprio vero che si comincia dalla fine.
      – RobinEdizioni

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