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Scrittrice su due ruote, quattro quando non impenno
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    • E lei ride

      Posted at 22:34 by fedepis, on novembre 6, 2019

      Io odio la GNE e lei lo sa. La immagino uguale a me, più magra, con una muscolatura evidentemente allenata. Me la immagino non con i capelli corti come i miei ma lunghi, gli occhi più scuri e grandi dei miei e con un sorriso di merda perennemente stampato in volto. È sempre in piedi, credo lo faccia apposta per innervosirmi. Il suo sguardo è sempre nel mio e non lo distoglie mai, altrimenti non si divertirebbe.

      Io la odio e lo sa e più la odio più sorride, più la odio più scoppia in una risata fragorosa che mi fa impazzire perché somiglia alla mia di risata, allora mi copro la bocca sperando di coprire la sua. Lei non parla mai. Credo che in fondo non potrebbe farlo perché le parole sono tutte mie, almeno quelle le pretendo.

      Sorride ogni volta che il banco ha evidentemente vinto tutto e io ho perso. Quando le chiedo perché ha lei quello che dovrebbe essere mio, perché ci sono vuoti per colpa sua, perché dobbiamo vivere insieme per sempre se non l’ho scelta, perché vederla di fronte a me non sia sufficiente ma devo anche guardarla mentre mi rotola addosso. Perché rotola addosso anche a chi mi si dovrebbe sdraiare accanto. Ride se vede che mi nascondo sotto una tenda per proteggere l’esterno da entrambe e proteggere me da Lei. Sorride e mi fa una linguaccia anche quando guardandola dico: “cazzo, mi poteva andare peggio“

      Lei non parla poi però come le migliori stronze, mi prende la testa tra le mani e mi mostra tutto quello che ho fatto con lei mentre mi rotolava addosso, nonostante i miei muscoli nel suo di corpo. Mi mostra scene di vita “normale”, mi mostra voli in aereo, Londra, tempo che non ho perso, obiettivi raggiunti comunque. E quando io mi scuoto per liberarmi dalla sua presa, Lei stringe ancora di più e mi mostra i volti di chi probabilmente non avrei mai conosciuto senza di Lei, degli amori piccoli che sono stati sostituiti dall’amore grande che mi ha messo di fronte, di chi in fondo non l’ha vista e di chi poi l’ha vista troppo da vicino, di chi c’era prima di Lei e c’era mentre cercavano di capire chi fosse e c’era anche quando mi hanno detto il suo nome. Mi riempie la testa di risate e lacrime, di dolore mischiato a commozione e coraggio. E io le dico che odio non poterla odiare sempre, che odio il pensiero che in qualche motivo strano e paradossale, che io neanche capisco, dovrei esserle grata e Lei ride.

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    • Nella nostra pelle

      Posted at 22:57 by fedepis, on ottobre 1, 2019

      Fece dei tagli precisi e verticali ai lati del proprio corpo. Scelse di farlo di fronte lo specchio del salotto, posizionato accanto al divano di tessuto blu coperto da un lenzuolo arancione. Quel lenzuolo era un regalo di suo padre che camuffava il regalo di sua madre: il divano blu. Non erano mai andati troppo d’accordo quei due. Si erano amati tanto, più di quanto quel divano lasciasse immaginare, in fondo il blu e l’arancione potrebbero avere anche punti in comune, dipende da come li si guarda ma i suoi genitori non si guardavano dalla prospettiva giusta. Quando litigavano, sua madre, tirava via l’arancione dal blu con rabbia, lo appallottolava e lasciava quella palla di cotone sul tessuto ricamato del divano. Lui allora svuotava sul divano una intera bottiglia d’acqua. In questo modo, Lisa, capiva che i suoi genitori avevano litigato: ritrovandosi il sedere bagnato e accanto a lei una palla di tessuto arancione.

      Lisa mentre tagliava non era sola in casa, sentiva il criceto correre sulla ruota, un gatto appostarsi in giardino, e il rubinetto che perdeva in cucina. Sentiva anche i passi di qualcuno in camera da letto, qualcuno a cui non importava né del blu né dell’arancione. E quel qualcuno ero io.

      Mentre tagliava, il sangue rosso colava giù denso e in maniera regolare. Lisa non piangeva e non mosse ciglio quando mi vide riflessa, nuda come lei, così uguali da far male. «Che stai facendo?» Le chiesi.

      «Cambio pelle!» Rispose come fosse normale.

      «Io non te l’ho chiesto» Le dissi.

      «Lo so, lo so»

      Lei pensava che sarei scappata via, invece mi avvicinai, l’abbracciai e sentii il suo sangue sul mio avambraccio sinistro, percepii il taglio e provai un dolore non mio «Ti faccio male se sto così per un po’?»

      «Sì, non molto ma sì»

      Lisa pensava sempre che il male è inevitabile, una volta mi disse: “È inevitabile!” mi diede un bacio “ce ne faremo così tanto, è inevitabile!” Mi diede un altro bacio “E quando succederà, se vorremo, cercheremo di levarcelo da dosso tutto quel male” Mi fidai, per questo l’abbracciai di fronte lo specchio: per vedere da quanto male potessi liberarla.

      Tenevo la mano destra sul suo ventre e le baciai piano una spalla e poi l’altra. Stava quasi per piangere al contatto della mia pelle così ben costruita, con la sua di pelle che credeva piena di errori, fatta di niente, vecchia già da giovane, un risultato disordinato di casualità. Smettila, mi disse, spalancò gli occhi e poggiò la punta della lama sulla mia mano che tenevo sul suo ventre. «Devo diventare… »

      «Qualcosa di diverso da quello che sei adesso? Io non voglio qualcosa di diverso» Le dissi

      «Gli altri sì e magari andrà meglio anche a te. Lasciami finire» Lisa aveva un sorriso nervoso sul volto

      «No! Mi piace toccarla, mi piace il sapore, e affondarci dentro. Non puoi levarmi l’unica cosa in cui affonderei, in cui spero di affondare. Cosa ne farai?»

      «La piegherò come si deve, e la metterò dentro il cassetto, me ne prenderò cura.» Mise la sua mano sulla mia e si sciolse dal mio abbraccio, si girò e puntò la lama sul mio cuore. La guardai impaurita «Non fermarmi» Ricominciò «è la cosa giusta, così potrò scegliere un nome più accettato, un sesso ben visto, un’immagine ordinata»

      «E se tutto dovesse cambiare anche per te?» Chiesi. «Potresti non sentire più il mio profumo come fai adesso, potresti vedermi diversa.»

      «Stai zitta!» Mi spinse via con una violenza contenuta, avrebbe potuto fare di peggio, tornò allo specchio e riprese a tagliare, incideva con più velocità. La guardai percorrere in verticale il proprio corpo, tagliarsi con attenzione, macchiarsi di sangue, intravedevo i muscoli ed io mi sentii un mostro abbandonato e colpevole. «Aspetta!» La pregai «Ricucio tutto, ricucio ogni cosa, poi andranno via anche le cicatrici e se resteranno, le bacerò comunque. Mi piaceranno anche quelle, vorrò anche quelle. Amo già quelle che hai. Buttiamo via gli altri, buttiamo via il blu e l’arancione, ricucio tutto» intanto Lisa stava quasi finendo, il disordine sarebbe sparito e l’ordine tornato, il suo senso di inadeguatezza gli altri non l’avrebbero più percepito perché, ne era convinta, sarebbe andato via insieme alla sua pelle.

      «Sono stanca, finisci tu» Mi ordinò all’improvviso, nervosamente porgendomi, tremante, il coltello dalla parte della lama

      «Cosa?»

      «Sono stanca, mi fanno male le braccia e le mani, mi fa male tutto. Finisci tu. Non lo capisci che lo faccio anche per te? Lo so che provi dolore, lo sento, tutte le notti sento che provi dolore per la pelle che ho»

      «No, non è vero» Le sorrisi, anche se non sapevo perché lo stessi facendo e mi avvicinai «Non finirò niente, ricucio tutto, ogni cosa, tutto»

      «Fammi vedere cosa c’è sotto la mia pelle, fammi vedere se posso fare qualcosa.» Lisa non smise di piangere e mise il coltello insanguinato tra le mie mani. Poi osservai il lenzuolo arancione, mi avvicinai, lo afferrai e lo stesi per terra, dicendo a Lisa di sdraiarsi. «Lo faccio ma questo disordine è anche disordine mio. La tua pelle vorrei solo lavarla, passare un panno bagnato sulla ferita, su quel lungo taglio, disinfettare tutto, disinfettare te. Farò un solo taglio, fattelo bastare!» Mi misi sopra di lei a cavalcioni. «Quale parte?» Le chiesi

      «Taglia da parte a parte, in orizzontale, da un braccio all’altro, all’altezza delle clavicole» Spalancai gli occhi «È la mia parte migliore» Continuò «La parte che ti piace di più, taglia!»

      Io avevo soltanto voglia di vomitare, la guardai. «La pelle cambia se deve cambiare, non se la si strappa da dosso» Dissi sulle labbra di Lisa, forse anche per me quella sarebbe stata una rinascita, perché un po’ la pelle di Lisa era anche pelle mia. L’ho deciso appena ho ricevuto il morso sul naso che Lisa mi diede un giorno per scherzo. Dopo quel morso ho pensato che fine o non fine, amore o non amore, quella sarebbe stata anche pelle mia per tutto il tempo che era destino lo fosse. Ma il destino esiste? Oppure davvero è tutto soltanto frutto di una casualità disordinata? Non lo so, non mi diedi mai una risposta, ma l’idea del destino mi piace di più e quella pelle era un po’ mia.

      Presi un grande respiro e nuovamente le dissi che per me andava bene come era.

      «Lo dici soltanto perché tu non riesci a fare lo stesso con la tua di pelle» Obiettò Lisa

      «È una gara? Vuoi vedere quante ferite ho sotto pelle? Credi non ci abbia provato ad essere come volevano tutti gli altri? E sai cosa rimane alla fine? Niente! Solo sangue e il vuoto di un riflesso che neanche riconosceresti.» Senza pensarci avvicinai il coltello alle mie clavicole. Il gesto era già chiaro nella mia mente, lo consideravo già compiuto ma Lisa mi afferrò il braccio terrorizzata. Allontanò il coltello, mise le mani sulle mie spalle e mi strinse a lei. «Non volevo farti spaventare e la mia pelle non può stare senza la tua, rimaniamo abbracciate così» mi disse.

      Dopo un paio di ore il silenzio era calato, il gatto era andato via, il criceto dormiva, il rubinetto aveva smesso di perdere, Lisa respirava piano, in attesa che io ricominciassi a ricucire.

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    • L’Eroìna e la Motociclista

      Posted at 13:16 by fedepis, on agosto 29, 2019

      La spada stava nel fodero e non veniva sguainata da così tanto tempo che la polvere ne aveva preso possesso. L’armatura e lo scudo venivano mangiati dalla ruggire e la nostra ex-eroina che ne era la proprietaria, ogni giorno, in un momento preciso del pomeriggio – tra le 15 e le 16 – e la sera, prima di addormentarsi, rimaneva a fissarli con rimpianto.

      Una notte, dopo essersi appena assopita, si svegliò di soprassalto sentendo qualcuno che bussava violentemente alla sua porta, e questa persona mentre batteva intanto urlava, con rabbia e paura, alla nostra ex-eroina di svegliarsi e aprire immediatamente la porta.

      L’eroina scese dal letto con il cuore che batteva forte, il respiro affannato e gli occhi verdi impastati dal sonno. Raggiunse la porta e la spalancò. Di fronte a se vide un’altra donna, pure carina, con in mano due caschi da motociclista.

      «Pensavo avessi il sonno più profondo» Disse la motociclista ridendo «E pensavo che voi eroine dormiste già vestite» l’eroina fece una faccia confusa «con l’armatura!» specificò la motociclista, l’eroina spalancò gli occhi e sentirono un boato in lontananza. «Quello è il nostro mostro!»

      «Il nostro? C’è sicuramente stato un disguido: io non combatto più, non combatto più niente. La mia spada e la mia armatura sono in pensione»

      «Ah certo! Ci sarà stato sicuramente un disguido» la motociclista le lanciò il casco in mano «Non abbiamo molto tempo, vai a vestirti o trasformarti… fai tu. Ma sbrigati!»

      La nostra ex-eroina rise «Non hai capito» disse ritornando violentemente il casco alla motociclista che fece una smorfia di dolore «Non sono una eroina, sono una persona normale» stava per chiudere la porta ma la motociclista mise il casco tra la porta e lo stipite.

      «Ho una serie di persone normali alle quali potrei chiedere aiuto, ma lo sto chiedendo a te. Quel mostro ci distruggerà, principalmente è arrabbiato con me ma farà qualcosa a tutti quelli che mi stanno a cuore, e il caso ha voluto che tu sia una di queste e inoltre puoi anche aiutarmi»

      «Non ho capito»

      «Non hai capito? Dio ma non mi hai neanche notata? Bah comunque lasciando stare l’orgoglio… piacere io sono quella che al bar qui all’angolo tutte le mattine ti regala il cornetto alla crema di pistacchio, non perché abbia soldi da spendere ma perché sei carina quando ti sporchi tutto il naso di zucchero a velo e ti macchi la maglia sistematicamente di crema» sentirono un altro boato «Per favore, saranno due i cornetti a colazione e una volta a settimana ti porto a cena»

      L’eroina trattene il sorriso, la proposta non la lasciava indifferente. Un altro boato ancora ma stavolta più vicino e in lontananza videro anche del fuoco alzarsi verso il cielo «Cavolo, va bene» sbottò con rabbia la nostra nuovamente-eroina «Però niente cornetti e niente cena» disse orgogliosa, chiuse la porta e poi la riaprì «Va bene anche solamente un cornetto di mattina» richiuse la porta, andò in camera, si legò i ricci in una coda, si infilò l’armatura tutta rovinata, prese la spada e per un momento ci ripensò. Un momento che durò così allungo da farle credere che la motociclista se ne fosse andata ma la sentì battere nuovamente alla porta. Uscì da casa, salì sulla moto insieme alla motociclista e infilarono i caschi «Tieniti forte» disse la motociclista.

      «Ho dimenticato lo scudo»

      «Sarò io il tuo scudo.»

      In un batter d’occhio arrivarono vicino al punto da dove provenivano i boati e il fuoco. C’era un gran caldo, scesero dalla moto e tolto il casco la nostra eroina vide un mostro che aveva il corpo di un drago, con la testa di un leone che sputava fuoco.

      «Moriremo… entrambe!» sbottò l’eroina «per dei cornetti alla crema di pistacchio»

      «Beh avevo messo più cose sul piatto, comunque potranno raccontare che abbiamo provato a non farlo»

      La motociclista prese dal baule della moto una balestra e l’eroina sguainò la spada correndo verso le zampe del mostro che appena aprì le fauci per sputare fuoco venne colpito dalle frecce della motociclista. L’eroina lo colpiva nella zampa destra senza pensare a niente, fin quando il mostro non riuscì a calciarla via facendola finire accanto alla motociclista «Ehi, ti sei fatta male?» le chiese

      «Sicuramente non bene» si guardò l’armatura «Si è spaccata e sanguino. Non posso continuare»

      La motociclista continuava a lanciare frecce mettendosi davanti l’eroina per proteggerla, ripetendole come un disco rotto: «sì che puoi, sì che puoi» mail mostro afferrò la motociclista dalle gambe stringendole forte e iniziò ad avvicinarla alla bocca. L’eroina si alzò di scatto, corse verso la moto, ci salì sopra e corse verso la zampa già ferita del mostro che colpì ancora e ancora finché il mostro non cadde lasciando andare la motociclista che trovando la balestra vicino a sé la prese e lanciò una freccia che colpì il mostro in testa prima che lui arrostisse l’eroina.

      Cadde il silenzio, la motociclista non si muoveva e non parlava e l’eroina le si avvicinò «Ehi, stai bene?»

      La motociclista la guardò e sorrise «Credo mi abbia rotto qualcosa, quindi mi sa che non ti potrò guardare sporcarti con i cornetti per un po’ ma grazie, è stato bello» l’eroina sorrise e si sdraiò accanto alla motociclista che le spostò i ricci dalla fronte chiedendole: «abbiamo di nuovo in eroina in città?»

      «Forse! Ma ho bisogno di crema di pistacchio per rimettermi in forze quindi mi sa che verrò a mangiarli da te ogni mattina finché servirà. Paghi comunque tu io devo sistemare l’armatura»

      La motociclista sorrise «Affare fatto»

      Lì sdraiate, la nostra eroina e la motociclista si riposarono accanto alla carcassa del mostro guardando l’alba.

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    • La leggerezza non si compra

      Posted at 9:42 by fedepis, on agosto 28, 2019

      Quando mi è stata diagnosticata la malattia ho dovuto prendere consapevolezza di una parte di me che sconoscevo. È proprio il mio dna fatto male, fatto così a cazzo. Piano piano ho iniziato a pensare che la malattia fosse come il colore dei capelli: “Fede sei malata, allo stesso modo hai i capelli castano scuro, è una parte di te”. I capelli cambiano ma puoi colorarli, e se diventano bianchi o grigi di solito si scopre che ci donano anche così. La malattia peggiora ma non mi dona anche così.
      Allora ho capito che la malattia non è come i capelli, per me la mia malattia, è come i miei occhi. È i miei occhi, assolutamente quelli per sempre.

      Dal momento della diagnosi in poi, tutto quello che ho guardato, che ho letto, le mie convinzioni, la mia testardaggine, la rabbia, il dolore, la gioia, le domande, le scelte, i corpi che ho abbracciato, i baci che ho dato, l’amore che ho dato e ricevuto, niente è stato più come prima. Non vedevo più come prima. Il mio riflesso non è più quello di prima. Quando mi specchio la malattia la ritrovo lì che affoga nella pupilla, senza morire.

      Qualche mese fa ho tagliato i capelli – dopo averli lasciati allungare – perché i miei occhi non mi riconoscevano più.

      Nel mio libro ho scritto

      “La leggerezza non si compra, pensi. Forse si conquista o si crea, si rincorre, si ruba. La leggerezza nel vivere è salvifica, è guaritrice, ma deve essere profonda. Una leggerezza matura, coscienziosa, che possa azzerare pentimenti e sensi di colpa successivi alla sua messa in pratica. Uno strumento, allora, sarà uno strumento, un optional, un bastone da passeggio.”

      Ci credevo, ci credo ancora e ci crede Sophia, la protagonista ma quando l’ho scritto non sapevo che avrei dovuto aggiungere che la leggerezza adesso, per me, passa dagli occhi. La paura passa dagli occhi e i miei occhi hanno palpebre che senza avvertire, a volte, si chiudono

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    • La bambina a testa in giù – 2 parte

      Posted at 11:08 by fedepis, on agosto 23, 2019

      «Chi sei?» Urlò la bambina

      L’animale lentamente sbadigliò «Bughi» disse flemmatico «Mi hai svegliato» 

      «Ma avevi gli occhi aperti» 

      «I bradipi dormono anche con gli occhi aperti» 

      «Che ci fai sul mio albero?» Chiese la bambina 

      Bughi ci mise due minuti buoni a mettersi appeso al ramo a testa in giù «Questo è il mio albero, non c’è dubbio. Ci sono nato e ci morirò» 

      «Starai per sempre lì?» 

      «Non ho motivo di lasciarlo… qui dormo e mangio, scendo solo per i bisogni. A proposito sei sdraiata sul mio water» 

      La bambina velocemente si mise sulle mani e si allontanò dal punto dove era sdraiata. Il bradipo scoppiò in una fragorosa e lenta risata «scherzavo, è dall’altro lato dell’albero» e chiuse gli occhi

      «Ehi ma dormi di nuovo?» 

      «Scusa ma devo dormire 19 ore… dove sono le tue zampe?»

      La bambina guardò i suoi monconi «Piedi… si chiamano piedi e non li ho, sono nata senza. Cammino sulle mani ma non posso proprio correre e andare dove voglio. Papà vuole regalarmi dei piedi ma ho paura che poi sarà tutto diverso e io ormai mi sto abituando.» 

      «Vabbè che importa? Guarda me! Sono lento ma felice» lungo sbadiglio «non ho mai visto altro se non questi rami e sono felice. Mangio solo foglie e sono felice. Non ho neanche bisogno di bere. Sono solo e sono felice.» 

      «Che noia!» 

      Il bradipo rise nuovamente e la bambina decise di rimettersi seduta per guardarlo meglio. A testa in giù lo vedeva male. Si sentiva offesa e arrabbiata con quell’animale lento e inutile. Non ridere di me, gli disse quasi sul punto di piangere. 

      «Devi abituarti! Sei come me! Non puoi certo rimanere tutta la vita sulle tue mani, cosa vedi a testa in giù?» 

      «Sei anche tu a testa in giù» 

      «Sono un bradipo, è la mia natura. Non mi interessa vedere niente, non mi interessano neanche i miei simili» La bambina guardò i propri monconi «Stai tranquilla, sarai felice come me» 

      Tutta la vita su un solo albero, senza vedere altra vegetazione, ingurgitando soltanto foglie, senza conoscere la sensazione della sete placata, senza parlare con qualcuno, chiunque. Senza avere un sogno. E quel bradipo i piedi li aveva, Erica li aveva guardati bene: erano enormi. Avrebbe potuto trovare e scalare alberi più alti e rigogliosi con quegli artigli. 

      «Non sono come te, avrei paura ad essere come te. Io sono una bambina curiosa, il mondo mi piace e anche i miei simili. Tipo, la mia maestra è divertente. La mia compagna di banco, quando sua madre le compra le caramelle, ne porta anche per me. Io non sono come te, io posso fare tutto.» Disse la bambina ma il bradipo aveva già chiuso gli occhi addormentandosi. 

      Erica allora decise di tornare verso la casa, ad aspettarla trovò suo padre che le sorrise e la prese in braccio. «Papà c’è un bradipo antipatico sul nostro albero» 

      Il padre guardò verso il giardino un po’ dubbioso «Amore mio non è possibile, i bradipi non riuscirebbero a vivere qui» 

      La bambina si girò verso l’albero  ma non vide nulla «Devo averlo sognato!» e pensò che aveva davvero fatto la fine di Alice.

      Suo padre la mise sopra la sedia, le chiese cosa avesse detto il bradipo e lui la ascoltò attentamente ma Erica non gli raccontò che aveva confidato al bradipo le sue paure. Le tenne per sé, un po’ per vergogna e un po’ perché aveva paura di farlo rattristare. 

      Passarono un paio di settimane ed Erica non vide più il bradipo, anche se ci pensava spesso. Sua madre a volte stava meglio e allora tutta la famiglia sedeva su una panca in giardino a guardare il tramonto. 

      Una mattina non buona per sua madre qualcuno bussò alla porta: era l’amica di suo padre che arrivò con un pacchetto regalo in mano. Erica la salutò e poi quella signora le porse il regalo. La bambina lo aprì emozionata, era una scatola e quando tolse il coperchio si mise a ridere. «Sono i miei piedi?» 

      «Eh sì! Li vuoi provare?» 

      «Papà!» 

      «Dimmi!» 

      «Posso continuare a dondolarmi a testa in giù e sfidare i miei amici a fare la verticale? E magari guardare il tramonto a testa in giù così sembra l’alba?» 

      «Sì, certo!» Suo papà sorrise 

      Erica velocemente alzò le gambe e porse i monconi alla donna che le infilò i suoi primi piedi. Suo padre non l’aveva mai vista così felice mentre compiva i suoi primi passi. Abbracciò la donna che le disse che l’avrebbe fatta anche correre e saltare.

      Erica spalancò la porta della stanza da letto «Mamma!». Sua madre si mise seduta sul letto, la guardò e sorrise «Se mi insegni a camminare, io ti insegno a guardare il tramonto a testa in giù, così ci sarà sempre l’alba» 

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    • La bambina a testa in giù – 1 Parte

      Posted at 19:30 by fedepis, on agosto 21, 2019

      Erica ha 8 anni, i capelli corti, arruffati e neri. Gli occhi castani guardano dietro occhiali da vista rotondi color verde chiaro. Le piace stare a testa in giù, andare in giro camminando sulle mani, anche a scuola. Soprattutto ama dondolarsi a testa in giù dall’altalena che suo padre ha messo in giardino. I suoi compagni di classe a volte provano a fare la verticale ma cadono sempre, nessuno ha l’equilibrio di Erica. 

      L’altro giorno Erica stava seduta sul tappeto del salotto per portare avanti una delle sue attività quotidiane: toccare i monconi che escono dai suoi pantaloni jeans. Quando è più triste le sembrano delle zampe di elefantino, quel giorno lo disse a suo padre che si arrabbiò. Il corpo di Erica, i piedi, non li aveva proprio presi in considerazione. «Tutti gli altri hanno i piedi.» rispose a suo padre «Tu e mamma avete i piedi, gli zii e persino la bis nonna ha i piedi anche se non li usa spesso per camminare. Posso dire cosa mi sembrano i miei non-piedi» Erica senza piedi era nata e senza piedi sarebbe rimasta. 

      Suo padre stava per risponderle ma qualcuno suonò alla porta; Entrò in casa una donna sorridente, sembrava simpatica ma Erica era così arrabbiata che sulle sue due mani si nascose dietro il divano. «Ehi!» la donna si mise a cavalcioni e si avvicinò al divano. Erica era a testa in giù, bloccata tra il muro e lo schienale del sofà. «Non stai un po’ scomoda?» chiese la donna 

      «Sto benissimo!» rispose Erica prima di starnutire fragorosamente. La donna rise 

      «Vieni da me, non ti farò nulla» 

      Erica disse qualche altra volta che non si sarebbe mossa da lì ma cominciò a starnutire così spesso che non ebbe altra scelta. Allora tornò sul tappeto, la donna si sedette accanto a lei. Passò le mani tra i capelli arruffati della bambina per liberarli dalla polvere. «Posso toccarli?» chiese riferendosi ai monconi. Erica allungò le gambe e la donna cominciò a studiarli con attenzione, li toccò e strinse tra due dita, facendole il solletico. 

      «A te non sembrano zampe di elefantino?» Chiese la bambina sorridendo

      «Oh!» La donna si allontanò per guardarli da un’altra prospettiva «Non saprei, può darsi». Quella incertezza a Erica piacque più di un categorico No, anche più di un categorico Sì. La bambina la lasciò fare, era divertita dalla curiosità di quella donna che la guardava camminare sulle mani come fosse un funambolo «Così non vedi tutto al contrario?» Chiese la donna. 

      «So riconoscere le cose dritte da quelle storte. Sono grande!» Sbottò Erica. Suo padre la rimproverò per la scortesia. «Scusa ma io sto bene così.» Disse la bambina 

      «Scusami anche tu. Non volevo farti innervosire». 

      Perché non poteva rimanere a testa in giù e guardare le cose come voleva? Sapeva perché quella donna fosse lì e sapeva cosa volesse suo padre ma Erica dei piedi tutti suoi, su misura, non li aveva mai voluti. 

      Erica ritornò a camminare sulle mani, si avvicinò alla porta socchiusa della camera da letto dei suoi genitori ed entrò mentre quella donna andava via. La stanza era buia e sul letto sdraiata su un fianco c’era sua madre che aveva sempre sonno e su quel materasso stava così comoda da voler vivere lì. Erica si avvicinò al letto e sua madre aprendo gli occhi vide i monconi davanti a sé. «Ti va il sangue al cervello». La bambina si mise seduta sul pavimento e si appese con le mani al piumone per salire sul letto, voleva raccontarle cosa fosse successo, ma appena sua madre si accorse di cosa la figlia stesse facendo e che era quasi riuscita a salire, allungò un braccio e afferrò la manina della bambina. «Ho bisogno di dormire!» le disse «Appena sarò sveglia ti chiamerò e staremo insieme» 

      «Va bene.» La mamma chiuse gli occhi e lasciò la mano della figlia che scivolò giù battendo la testa. Erica tornò sulle proprie mani e piangendo in silenzio uscì.

      Sempre a testa in giù, piena di rabbia, con i monconi fece cadere un vaso pieno di fiori finti che si trovava su un tavolino basso del salotto, poi fece cadere anche il tavolino, poi una sedia. Suo padre la guardò senza dirle niente. Erica corse in giardino ed esausta si lasciò andare sotto un folto albero. Mentre guardava le nuvole tra le foglie verdi sperò di addormentarsi facendo la fine di Alice.

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    • 2p = 4l

      Posted at 12:31 by fedepis, on agosto 8, 2019

      Balliamo con poche pretese dentro un quadrato. Muovendoci sul posto con la mia testa sulla tua piccola giovane spalla destra e la tua testa sulla mia indecente giovane spalla destra, senza dirci niente di nuovo o di meglio che non sia il silenzio.

      Balliamo tra quattro angoli uguali mentre fuori terremoti, eruzioni, annegamenti e guerre, fanno crepare il nostro punto di appoggio e parliamo per non perdere il contatto, il controllo, gli occhi, per lasciar fuori la paura.

      Balliamo e chiami il futuro al mio orecchio e io sussurro sì al tuo orecchio, sul tuo collo, sul tuo petto. E ripetiamo sì sui nostri corpi, dentro quattro angoli uguali, fino a poterne calcolare il perimetro e l’area.

      Balliamo e i lati del quadrato diventano fottute lastre di cristallo che si romperanno frantumate dalle mie e tue urla. E ci feriranno lasciandoci cicatrici luccicanti al sapore di zenzero e limone.

      Balliamo, i piedi doloranti, con le braccia lungo il busto e le mani intrecciate alla fine di tutto, con le mie labbra sulle tue e le tue sulle mie per aiutarci tra un respiro e l’altro dentro un quadrato diventato rombo al ritmo di cadute, rivincite e armoniche

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    • La signorina Credo e la signorina Boh

      Posted at 23:23 by fedepis, on luglio 25, 2019

      La signorina Credo e la signorina Boh avevano due bancarelle ai lati di una larga e lunga strada del centro città, erano lì da moltissimo tempo. Non avevano mai parlato, si guardavano soltanto ma neanche troppo bene. Per esempio nessuna delle due avrebbe potuto dire di che colore l’altra avesse gli occhi. Non avrebbero potuto neanche tirare a indovinare. Però la signorina Credo avrebbe potuto riconoscere il cappotto della signorina Boh tra milioni, non lo toglieva mai. La signorina Boh dal canto suo avrebbe potuto riconoscere il modo di camminare della signorina Credo tra milioni.

      La signorina Credo vendeva ogni genere di fogli di carta con parole scritte sopra. Fogli di differenti misure, colori ed epoche, scritti da uomini donne e bambini. E c’erano lettere, racconti, pensieri, singole parole, poesie, canzoni, invettive, confessioni, perfino qualche lista della spesa. Tutto scritto rigorosamente a mano con qualsiasi mano e con qualsiasi penna.

      La signorina Boh invece vendeva copertine per i libri, anche questi di qualsiasi dimensione e colore, peso e materiale. Alcune avevano decorazioni in oro, altre erano rudimentali. Ne aveva una in ferro battuto piccola come il palmo della sua mano e un’altra fatta di piume ma troppo grande per essere tenuta sopra la bancarella. Ogni copertina aveva rigorosamente sopra un titolo.

      Il mondo è pieno di gente che ha bisogno di parole e copertine con titoli annessi.

      La signorina Credo e la signorina Boh non si stavano molto simpatiche e stranamente la signorina Credo provava soddisfazione quando un suo cliente riusciva a trovare le parole giuste per la copertina comprata dalla signorina Boh e quest’ultima provava la stessa segreta soddisfazione quando una sua copertina era perfetta per delle parole comprate poco prima.

      Un giorno una tromba d’aria colpì la città, i commercianti riuscirono a salvarsi ma molte bancarelle si distrussero e la signorina Boh e la signorina Credo ritrovarono la loro merce tutta mischiata.

      «Adesso come faremo?» chiese la signorina Boh

      La signorina Credo ci pensò un po’ su, guardò la signorina Boh e le sorrise «La mia bancarella non è messa così male, potremmo dividerla?»

      «Dividerla?»

      «Sì!»

      «Ma come si possono vendere fogli con parole a caso scritte sopra? Oltretutto le parole di qualcun altro»

      «A parte che sarebbe un problema mio, comunque non sono parole a caso, hanno senso tutte insieme. Sono solo senza titolo. Non siamo tutti bravi ad usare le parole, a volte c’è bisogno di qualcuno che dica quello che non riusciamo a dire noi. Tu vendi copertine con titoli a caso!»

      «Copertine e titoli per parole scelte con cura» precisò la signorina Boh con un cipiglio da maestrina «per parole che hanno bisogno di essere custodite da poche parole… è importante avere un titolo»

      «Unico per tutta la vita?»

      «Boh unico per il momento che ne ha bisogno»

      La signorina Credo sorrise «Anche i miei fogli, credo, servano per i momenti ai quali sono destinati»

      La signorina Boh sbuffò ma disse che si poteva provare. Tirarono su la bancarella e diligentemente raccolsero la loro merce da terra e la posarono sul lato del ripiano che avevano scelto. La signorina Boh notò che spesso la signorina Credo si fermava oppure rischiava di perdere l’equilibrio e mentre la guardava pensava che anche a lei capitava di fermarsi e rischiare di cadere ma dentro di sé. I clienti furono felici di vederle insieme, di non dover spostarsi da un lato all’altro della strada, di trovare immediatamente le parole giuste per la copertina scelta e viceversa. I guadagni aumentarono perché le signorine Boh e Credo erano divertenti da guardare quando battibeccavano.

      Un giorno la signorina Credo, mentre la signorina Boh prendeva dei caffè, adocchiò nella borsa della sua vicina una copertina che non aveva mai visto sulla bancarella. Senza pensarci la prese, la copertina era fatta di legno di quercia e ai quattro angoli vi erano disegnati dei piccolissimi mandala verdi, poi ne lesse il titolo: “Se mi vedi, esisto!” La signorina Boh tornò, i caffè le caddero dalle mani, i suoi occhi si riempirono di lacrime, il naso diventò rosso e il dolore, la vergogna sembravano spaccarle le vene delle mani e del collo. «Non volevo curiosare», iniziò la Signorina Credo, «forse sì ma appena ho intravisto la copertina ho sentito l’istinto di conoscerne il titolo, ed è bellissimo, lei è bellissima. Non lei, lei, ma la copertina. Cioè anche lei ma questa è un’altra storia» rise impacciata. La signorina Boh andò verso di lei e le strappò la copertina dalle mani, le girò le spalle, la signorina Credo cercò di fermarla ma perse l’equilibrio e cadde sulle ginocchia: «Ho le parole giuste!» urlò mentre cercava di rimettersi in piedi «Ho le parole per la sua copertina signorina Boh »

      La signorina Boh tornò a guardarla, non le porse la mano per aiutarla e non si addolcì perché era per terra; in realtà la odiava un po’ anche se pensava fosse bella, la odiava. «Esattamente! La mia!» sbottò.

      «Guardi!» la signorina Credo, rialzatasi, zoppicando andò verso la propria borsa, prese un mucchio di fogli spiegazzati. «Queste sono le mie parole, ok? Vorrei che le leggesse» la signorina Credo glieli porse ma la signorina Boh benché fosse tentata non li prese. Allora la signorina Credo cominciò a leggere: ”

      Se il mio specchio fosse acqua mi ci tufferei dentro per afferrare il mio riflesso per i capelli. E corpo e riflesso diventerebbero un’unica cosa. Non so quando il mio corpo nudo ha smesso di essere mio, non so quando è sparito da me, quando ho cominciato ad odiarlo. Quando ho pensato che liberarmene fosse una possibilità, e non so perché sono riapparsa durante una tromba d’aria.

      Ho scritto altro Signorina Boh e non l’ho fatto solo per me, io stavo scrivendo parole per lei. Ho creduto di poterlo fare, di sapere che parole le girassero per la testa, soltanto che poi hanno cominciato ad assomigliare alle mie. E non spariscono, Signorina Boh, lei non sparisce»

      La signorina Boh le strappò i fogli dalle mani, afferrò la borsa e andò via. Non tornò per tutto il giorno e fu la signorina Credo che si occupò delle sue vendite. Quando non ci furono più clienti, decise di raggiungere la casa della signorina Boh, che sapeva vivere lì vicino. Suonò al campanello della porta con su scritto Boh. Appena la porta si aprì la signorina Credo sorrise, vedendo la signorina Boh senza cappotto per la prima volta e le vennero in mente altre parole da scrivere. Impacciata le disse «Lo so che mi odia ma ho i suoi soldi»

      «Entra!» La casa era sembrava piccola e inondata da una rilassante luce soffusa che si poggiava sulle copertine di cui era stracolma. In fondo alla stanza vi era una macchina per rilegare i testi «Siediti a quel tavolo» disse la signorina Boh segnando un tavolo rotondo pieno di penne «Scegli la penna che preferisci, sono tutte blu ma non sapevo quale fosse per te più comoda. Riscrivi tutte le nostre parole, in bella e senza pasticciare il foglio. Quando hai finito rileghiamo tutto. E sì sono bella come la copertina e il titolo, e tu sei bella come tutte quelle parole»

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    • Effetti collaterali

      Posted at 9:35 by fedepis, on giugno 18, 2019

      Una delle cose con le quali ho dovuto avere a che fare da quando sono disabile è stata il ritrovarmi ad avere bisogno di qualcuno quando non vorrei nessuno che non sia chi dico io.

      Certo, da un certo punto di vista penserete: «Beh, è una opportunità in più da poter dare a quella persona e a te stessa», condivisibile ma non scherziamo: per quanto si professi la capacità di mettersi nei panni degli altri, a volte chi si vanta di questo pregio, mente. Non per cattiveria ma perché fa figo. Qui si scrive del non avere possibilità di scelta, dell’obbligo di condividere la maggior parte delle giornate e gli spazi con qualcuno che non conoscete ma dal quale vi dovete lasciare accudire. Qualcuno che vi prepara da mangiare, vi aiuta ad afferrare una tazzina, vi tocca il viso, il corpo, vi porta in bagno, vi abbassa i pantaloni, le mutande e poi vi riveste. E può capitare di pensare: “io non voglio che mi passi la crema sul viso, che mi levi le sopracciglia, non voglio che mi tagli un pezzo di formaggio o che mi porti in bagno. Lo so che non è colpa tua, ma oggi è così e poi hai proprio quel tipo di mani – apparentemente sempre umidicce – che non sopporto. Va bene parlare alle sette e mezza di mattina ma tu non ridi, sghignazzi fortissimo. Lo so che non è colpa tua ma io non voglio parlare con te di cose che non mi interessano, tipo la marca del mio golfino, mi basta sia caldo. Che ne so? È un golfino! Eh sì, non voglio sentire lo stomaco contorcersi ascoltando teorie sul mondo alle quali non credo, non oggi. Non voglio nascondermi: non ho pretese su Dio, può non farmi risorgere. No ma io lo so che non è colpa tua ma oggi non mi va. Non voglio parlare d’amore perché sempre oggi – ma anche ieri e l’altro ieri – tu mi dirai qualcosa che peggiorerà la situazione, ma oggi il fatto che lasci il tempo che trovi, non mi aiuta. E non è colpa tua ma io e te, libere da obblighi, saremmo rimaste rispettosamente nel nostro mondo, a lottare per cose diverse, sognando un futuro opposto, considerando il nostro essere donne in modo diverso. Lo so che non è colpa tua ma non prendiamoci per il culo, neanche tu mi sopporti ed è l’unica cosa sulla quale andiamo d’accordo.”

      Lo penso ma non lo dico, non solo perché non vorrei dare la conferma che sono stronza dentro e mi piace, ma perché potrebbe andarmi peggio, potrebbe arrivare qualcuno che puzza e scorreggia come fosse a casa propria. Non dico niente perché penso che in fondo passo i primi tre giorni della settimana lavorativa con un’altra persona che è un balsamo lenitivo che mi aiuta a sopportare gli ultimi due. Non dico niente usando la scusa più maschilista di sempre: sono in pre-ciclo e si sa è tutto amplificato!

      Ma la verità è che non dico niente perché la disabilità come effetto collaterale ha quello di buttarti nel mare immenso della rabbia soffocata, dei pianti soffocati, dei vaffanculo soffocati, illudendoti che soffocare sia l’unico modo per salvarti e invece, alla fine della fiera, rimani soltanto ricoperta di vaffanculo.

      Inviato su Senza categoria | 0 commenti | Tag amore, disabilità
    • Lettera alla mia ansia

      Posted at 11:48 by fedepis, on aprile 27, 2019

      Ho fatto i conti, ci conosciamo da 12 anni. Mi hai presa e trascinata con te in un vicolo che non avevo visto. Non conoscevo il tuo nome e cognome, la tua età. Soltanto dopo mesi riuscii a distinguere i lineamenti del tuo volto. Anche se passavi con me i giorni e le notti, anche se dividevamo i pasti e il letto come due amanti e avrei potuto trovarti ovunque; anche se i tuoi posti preferiti sono sempre stati sopra il mio petto e sotto la mia pelle, io non riuscivo a riconoscerti. Adesso invece, ti riconosco persino nel viso degli altri come me. È una questione di sguardo, di respiro, di postura, di paura.

      Non ti annoi a fare il tuo dovere togliendo l’aria, nascondendoti dietro il frigorifero della mia cucina, uscendo di colpo, facendo «BU!». Come se tu fossi una Trilli-cattiva spolveri sulla mia testa polvere nera che infonde paura di volare, di camminare, di mangiare, di impazzire tra i miei pensieri che sembrano gli uccelli di Hitchcock. Paura di ridere, di essere felice, di stare male e poi morire dentro, davanti a tutti. Per un po’ ho avuto paura che tutti potessero accorgersene e chiedermi il perché del tuo esistere. Non è facile spiegarlo se neanche io riesco a capire, non lo è se chi ti ascolta pensa che basterebbe non pensarti per farti sparire dentro una folata di vento. Così, pur odiandoti, non accettavo che gli altri non ti comprendessero o ti sottovalutassero, e mi lasciavi strappata tra la voglia di gridare e quella di nascondermi. Tanto valeva rimanere a casa.

      Arrivi su un carro che non ha bisogno nè di cavalli nè di cocchiere perché la vita si muove da sé. E ti sento arrivare e rimanere, approfittando della mia totale impossibilità di scappare e di non pesare e di non pensare. Sono definitivamente sporca, ti sei fusa con le mie debolezze. Il mio coraggio adesso ha più controllo ma ci sta così tanto a riacciuffarti che poi ha bisogno di riposare.

      Non è una lettera d’amore, non ti amerò mai, mi rovini i momenti migliori e peggiori i momenti peggiori. Mi fai perdere il poco controllo che ho del mio corpo. E ci ho messo anni ad avere del potere su di te, ad imparare a sopportarti, ad essere funzionale alla mia vita anche con te accanto. Sei causa di rabbia, lacrime e ti ho concesso di farmi fallire ma hai un solo pregio anzi due: sei un buon campanello d’allarme e un buon rimedio a tutti i coglioni del mondo.

      Inviato su Senza categoria | 0 commenti | Tag amore, ansia, lettere
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    • L’arte di essere nessuno

      La maggior parte delle volte in cui un bicchiere di vetro ricolmo di acqua cade per terra, la colpa è della distrazione. Tornando indietro, in fondo, avremmo potuto evitarlo. Se non l’avessimo posizionato così vicino al bordo del tavolo, oppure se l’avessimo spostato in tempo, prima che il nostro gomito lo colpisse, non sarebbe mai caduto e noi non avremmo rischiato di ferirci camminando su dei pezzi di vetro a piedi scalzi. Sophia lo guarda cadere, il bicchiere. Sente il tonfo, lo vede infrangersi sul pavimento e, nello stesso istante, lei fa la medesima fine.
      Per tutto il romanzo, con il suo strano modo di camminare, Sophia vede esplicarsi al di fuori di sé la malattia genetica che porta dentro. Tutto è una perdita di equilibrio, in tutto c’è odore di arance rosse e succose che scivolano via dalle mani di un giocoliere e si infrangono sui pezzi di vetro. Ma chi è il giocoliere? È davvero chi crede Sophia?
      Attraverso flussi di pensiero, flashback, cambi di persona, decostruzioni e ricostruzioni, Sophia si rende conto che nulla era come credeva, che la ricerca di qualcuno implica sempre la ricerca di se stessi e che, forse, è proprio vero che si comincia dalla fine.
      – RobinEdizioni

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