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Scrittrice su due ruote, quattro quando non impenno
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    • Effetti collaterali

      Posted at 9:35 by fedepis, on giugno 18, 2019

      Una delle cose con le quali ho dovuto avere a che fare da quando sono disabile è stata il ritrovarmi ad avere bisogno di qualcuno quando non vorrei nessuno che non sia chi dico io.

      Certo, da un certo punto di vista penserete: «Beh, è una opportunità in più da poter dare a quella persona e a te stessa», condivisibile ma non scherziamo: per quanto si professi la capacità di mettersi nei panni degli altri, a volte chi si vanta di questo pregio, mente. Non per cattiveria ma perché fa figo. Qui si scrive del non avere possibilità di scelta, dell’obbligo di condividere la maggior parte delle giornate e gli spazi con qualcuno che non conoscete ma dal quale vi dovete lasciare accudire. Qualcuno che vi prepara da mangiare, vi aiuta ad afferrare una tazzina, vi tocca il viso, il corpo, vi porta in bagno, vi abbassa i pantaloni, le mutande e poi vi riveste. E può capitare di pensare: “io non voglio che mi passi la crema sul viso, che mi levi le sopracciglia, non voglio che mi tagli un pezzo di formaggio o che mi porti in bagno. Lo so che non è colpa tua, ma oggi è così e poi hai proprio quel tipo di mani – apparentemente sempre umidicce – che non sopporto. Va bene parlare alle sette e mezza di mattina ma tu non ridi, sghignazzi fortissimo. Lo so che non è colpa tua ma io non voglio parlare con te di cose che non mi interessano, tipo la marca del mio golfino, mi basta sia caldo. Che ne so? È un golfino! Eh sì, non voglio sentire lo stomaco contorcersi ascoltando teorie sul mondo alle quali non credo, non oggi. Non voglio nascondermi: non ho pretese su Dio, può non farmi risorgere. No ma io lo so che non è colpa tua ma oggi non mi va. Non voglio parlare d’amore perché sempre oggi – ma anche ieri e l’altro ieri – tu mi dirai qualcosa che peggiorerà la situazione, ma oggi il fatto che lasci il tempo che trovi, non mi aiuta. E non è colpa tua ma io e te, libere da obblighi, saremmo rimaste rispettosamente nel nostro mondo, a lottare per cose diverse, sognando un futuro opposto, considerando il nostro essere donne in modo diverso. Lo so che non è colpa tua ma non prendiamoci per il culo, neanche tu mi sopporti ed è l’unica cosa sulla quale andiamo d’accordo.”

      Lo penso ma non lo dico, non solo perché non vorrei dare la conferma che sono stronza dentro e mi piace, ma perché potrebbe andarmi peggio, potrebbe arrivare qualcuno che puzza e scorreggia come fosse a casa propria. Non dico niente perché penso che in fondo passo i primi tre giorni della settimana lavorativa con un’altra persona che è un balsamo lenitivo che mi aiuta a sopportare gli ultimi due. Non dico niente usando la scusa più maschilista di sempre: sono in pre-ciclo e si sa è tutto amplificato!

      Ma la verità è che non dico niente perché la disabilità come effetto collaterale ha quello di buttarti nel mare immenso della rabbia soffocata, dei pianti soffocati, dei vaffanculo soffocati, illudendoti che soffocare sia l’unico modo per salvarti e invece, alla fine della fiera, rimani soltanto ricoperta di vaffanculo.

      Inviato su Senza categoria | 0 commenti | Tag amore, disabilità
    • Lettera alla mia ansia

      Posted at 11:48 by fedepis, on aprile 27, 2019

      Ho fatto i conti, ci conosciamo da 12 anni. Mi hai presa e trascinata con te in un vicolo che non avevo visto. Non conoscevo il tuo nome e cognome, la tua età. Soltanto dopo mesi riuscii a distinguere i lineamenti del tuo volto. Anche se passavi con me i giorni e le notti, anche se dividevamo i pasti e il letto come due amanti e avrei potuto trovarti ovunque; anche se i tuoi posti preferiti sono sempre stati sopra il mio petto e sotto la mia pelle, io non riuscivo a riconoscerti. Adesso invece, ti riconosco persino nel viso degli altri come me. È una questione di sguardo, di respiro, di postura, di paura.

      Non ti annoi a fare il tuo dovere togliendo l’aria, nascondendoti dietro il frigorifero della mia cucina, uscendo di colpo, facendo «BU!». Come se tu fossi una Trilli-cattiva spolveri sulla mia testa polvere nera che infonde paura di volare, di camminare, di mangiare, di impazzire tra i miei pensieri che sembrano gli uccelli di Hitchcock. Paura di ridere, di essere felice, di stare male e poi morire dentro, davanti a tutti. Per un po’ ho avuto paura che tutti potessero accorgersene e chiedermi il perché del tuo esistere. Non è facile spiegarlo se neanche io riesco a capire, non lo è se chi ti ascolta pensa che basterebbe non pensarti per farti sparire dentro una folata di vento. Così, pur odiandoti, non accettavo che gli altri non ti comprendessero o ti sottovalutassero, e mi lasciavi strappata tra la voglia di gridare e quella di nascondermi. Tanto valeva rimanere a casa.

      Arrivi su un carro che non ha bisogno nè di cavalli nè di cocchiere perché la vita si muove da sé. E ti sento arrivare e rimanere, approfittando della mia totale impossibilità di scappare e di non pesare e di non pensare. Sono definitivamente sporca, ti sei fusa con le mie debolezze. Il mio coraggio adesso ha più controllo ma ci sta così tanto a riacciuffarti che poi ha bisogno di riposare.

      Non è una lettera d’amore, non ti amerò mai, mi rovini i momenti migliori e peggiori i momenti peggiori. Mi fai perdere il poco controllo che ho del mio corpo. E ci ho messo anni ad avere del potere su di te, ad imparare a sopportarti, ad essere funzionale alla mia vita anche con te accanto. Sei causa di rabbia, lacrime e ti ho concesso di farmi fallire ma hai un solo pregio anzi due: sei un buon campanello d’allarme e un buon rimedio a tutti i coglioni del mondo.

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    • Lettera di una dissolvenza

      Posted at 20:30 by fedepis, on febbraio 24, 2019

      Guarda come sono diventata, guarda come divento invisibile dietro la porta chiusa della nostra camera da letto. Divento insignificante seduta sul pavimento del corridoio, stupida mentre continuo a bussare ma non senti battiti. Non metti più lo zucchero nel caffè, neanche un pizzico. Hai ancora il mio sapore sulla punta della lingua? Oppure ingurgiti tutti quei caffè amari per cancellare anche il ricordo? Il mio modo goffo di chiederti l’amore e di restituirtelo.

      A nulla è servito lasciare il mio cuore sul tuo comodino, sotto una lampada che non accendi più. Non senti la mia voce che ti implora di cercarmi da qualche parte. Non senti più i miei capelli che ti solleticano la schiena. Il mio respiro che ti piace tanto. Quel modo drastico di chiudere ogni discussione per scrollarci un po’ di rabbia da dosso. Vedi il mio viso riflesso sulla porta finestra del nostro balcone? L’ho riempito di girasoli adesso affogati nella pioggia. Mi vedi sotto la pioggia accanto ai girasoli? Il mio sguardo ti segue come loro seguono il sole. Credi non ci sia più nulla che riconosceresti in me?

      Mi sciolgo dentro i cassetti pieni dei tuoi bozzetti abortiti della vita che mi hai insegnato a volere. Ho lasciato che tu facessi tutto, che mi trasformassi nel tuo amore destinato ed eterno, e ora mi cancelli come se io fossi un errore di distrazione. Lo spigolo sul quale hai sbattuto un fianco. Informami almeno del momento esatto dell’inizio della fine, quale parte di me è sparita per prima? Potrei tornare indietro, ripercorrere i nostri passi falsi.

      Disegnami sopra il muro del salotto, intaglia il mio profilo sulla porta d’entrata, suonami ad un piano, tirami fuori da un origami, ridammi il nome, il mio, così rinasco dalla tua bocca perché è lì che sono sparita. Rinomina le parti del mio corpo che vuole il tuo, ricostruisci te e me. Fallo adesso, pronunciami prima che tu finisca di leggere questa lettera. Ti lascio il tempo di ricordare il ti amo inaspettato e l’imbarazzo del primo bacio. Ti lascio il tempo di ripetere l’incontro di due esseri umani fatti a pezzi da fantasmi mai morti.

      (Photo by Kunj Parekh on Unsplash)

      Inviato su LETTERE A CORPI INCLUSI | 0 commenti | Tag amore, lettere
    • Lettera ad un corpo

      Posted at 17:05 by fedepis, on febbraio 17, 2019

      IMG_2763Le mie mani vanno a rallentatore mentre ti scrivo e così mi sembra che anche tu sia in slow motion nella mia mente. I tuoi sorrisi me li godo meglio e i tuoi occhi che guardano dove non guardo io, hanno quasi sapore. Nella mia mente parli lentamente, riesco a sentire il tuo accento confuso, solo tuo. Le tue parole sono un coltello che trapassa ogni strato del mio corpo e del mio cervello, così piano che sembra eterno un attimo prima che finisca di penetrare. Le mie mani vanno ancora a rallentatore, ti scrivo della mia immagine cambiata e di me che allo specchio ho dovuto riconoscermi nuovamente. Non c’è più nulla di quello che c’era prima di te, non c’è più l’orgoglio del passo o di quell’accento di sensualità che avrei potuto allenare. Non ci sono i movimenti che conoscevo a memoria, adesso niente è “come andare in bicicletta”, non c’è la possibilità di andare a passo con il tempo, non c’è la rabbia che il mio corpo vuole sfogare fuori da quattro mura, non c’è l’andare dove non mi vede nessuno. Tu mi guardi, mi intravedi, e io vorrei non essere vista se non come dico io. Non ho più gambe d’ambra ma polpacci rossi per una cattiva circolazione che trascina i miei sentimenti ad affogare in del sangue che non sintetizza quel preciso enzima.

      Per un po’ ho creduto che anche i miei sensi si fossero ammalati. Ho creduto che non avrei sentito nessun pezzo di corpo altrui. Ho creduto che non sarebbe stato possibile per me neanche percepire gli altri corpi. Forse accadeva veramente. A niente valeva impegnarmi nel sentirli, nel toccarli, nel guardarli, oltrepassarli ma in fondo per arrivare dove? Ho capito sai che la mia vera paura era non sentire più il mio di corpo, perderlo in movimenti incerti e spenti. Temevo di non sentire più la mia pelle ricoperta di acqua, la pelle d’oca, il dolore, i baci e i morsi. Come se perdere i movimenti significasse perdere i sensi.

      E così, ho sorvolato il tuo corpo, ho aspettato il tuo permesso per scivolarci sopra, a modo mio, per potermi ricordare delle mie braccia e delle mie gambe, del mio addome, del mio petto, della mia schiena, dell’incavo del collo. Scivolarti addosso è l’unico modo per capire che esisto ancora. Toccarti per non soffocare, desiderarti per perdermi, perdermi nel tuo corpo per ritrovare il mio.

      Le mie mani mentre ti scrivo vanno a rallentatore, riesci ad essere la mia gioia e il mio dolore in slow motion, in fondo quello che è sparito non può essere ricreato ma solo sostituito.

      Inviato su LETTERE A CORPI INCLUSI, Senza categoria | 0 commenti | Tag amore, disabilità, disability
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      La maggior parte delle volte in cui un bicchiere di vetro ricolmo di acqua cade per terra, la colpa è della distrazione. Tornando indietro, in fondo, avremmo potuto evitarlo. Se non l’avessimo posizionato così vicino al bordo del tavolo, oppure se l’avessimo spostato in tempo, prima che il nostro gomito lo colpisse, non sarebbe mai caduto e noi non avremmo rischiato di ferirci camminando su dei pezzi di vetro a piedi scalzi. Sophia lo guarda cadere, il bicchiere. Sente il tonfo, lo vede infrangersi sul pavimento e, nello stesso istante, lei fa la medesima fine.
      Per tutto il romanzo, con il suo strano modo di camminare, Sophia vede esplicarsi al di fuori di sé la malattia genetica che porta dentro. Tutto è una perdita di equilibrio, in tutto c’è odore di arance rosse e succose che scivolano via dalle mani di un giocoliere e si infrangono sui pezzi di vetro. Ma chi è il giocoliere? È davvero chi crede Sophia?
      Attraverso flussi di pensiero, flashback, cambi di persona, decostruzioni e ricostruzioni, Sophia si rende conto che nulla era come credeva, che la ricerca di qualcuno implica sempre la ricerca di se stessi e che, forse, è proprio vero che si comincia dalla fine.
      – RobinEdizioni

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