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Scrittrice su due ruote, quattro quando non impenno
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    • Lettera al corpo 2.0

      Posted at 15:45 by fedepis, on maggio 30, 2020

      Ti immagino come quercia, una ninfa che è diventata quercia con la mente alle sue radici.

      Sei disagio, sei il freno ai miei istinti, sei ispirazione a volte, sei la fine e l’inizio a volte. Sei rabbia quasi sempre e amore di sfuggita. Sei la lotta continua per cercare di combaciare. Io e te combaceremo mai? Ne varrebbe le pena?

      Sei disagio per il disagio di scriverti così come qualcosa che non vorrò mai e che non riconosco. Ti riconoscerò mai? Prima o poi dovrò pur amarti, prima o poi dovremmo accettare che il nostro è un matrimonio imposto desiderosi di un divorzio che non potrà mai essere concesso.

      Sei odio e sensi di colpa… i miei sensi di colpa hanno nome e cognome, facce e ruoli, professioni e caratteri. Sei paura continua e fottuta e forse sei più di tutto questo.

      Devo essere Xena con un involucro del cazzo, me lo urli di continuo e lo so che non te lo meriti. In fondo neanche tu hai scelto qualcosa, mica lo fai apposta… non ci divertiamo per niente insieme ma se magari il mio cervello ti mangiasse, se il mio cervello vincesse sui tuoi cambiamenti, se tu diventassi più leggero e morbido, se tu diventassi una cosa che sento meno mia, se mi appartenessi di meno. Lo so cosa stai pensando, corpo mio, che tu in tutto questo non c’entri poi tanto, che la quercia è la mia mente e tu sei ai suoi piedi ogni giorno a reclamare un po’ di pietà e buona educazione, meno dolore. Mi preghi di concederti perdono e opportunità, l’opportunità di una vita assurda ma normale, di amore tutto nostro fino alla fine di noi, oltre l’abbandono e il rifiuto, il panico e l’ansia.

      La verità è che ti cerco e tu cerchi me tutti i giorni, tutto il tempo.

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    • Posted at 12:05 by fedepis, on maggio 10, 2020
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    • Muscoli e ossa

      Posted at 11:36 by fedepis, on aprile 29, 2020

      C’era una sedia vicino al muro, era sempre stata lì e quella sera decisi di sedermi per rimanere in penombra. Quando mi rialzai una parte di me rimase seduta a fissarmi con i nostri grandi occhi. Così scoprii che faccia avessi quando mi sembrava di essere su un precipizio senza poter indietreggiare né buttarmi. Quando volevo scappare ma le mie gambe erano inermi. Potevo vedermi respirare come se qualcuno mi comprimesse il petto. Mi ero scissa finalmente, finalmente non sentivo più nulla di quello che Lei provava. Mi inginocchiai e sorridendo le parlai «Io non voglio essere te. Non posso più permettermelo, capisci?»

      Mi alzai e andai a farmi una doccia. L’acqua scendeva giù come se io stessa fossi una cascata, come se fossi la cascata e una ragazza stupida che si butta da una roccia per vedere quanto male faccia l’impatto devastante con l’acqua. Misi del bagnoschiuma sulla spugna e mi insaponai delicatamente, poi lavai anche i miei capelli, dopo lo shampoo passai del balsamo. Girandomi vidi che l’altra me era lì, nel bagno, con gli occhi velati di lacrime e nuda, il suo corpo era il mio ma non come il mio, eppure lo era stato. Sembravamo così stanche. Lei però lo sembrava più di me. «Lo faccio per noi, lo faccio per entrambe.» Le dissi mentre mi sciacquavo un’ultima vota. Mi fissava senza dire niente e io la afferrai dalle braccia, la tirai verso di me, e come se stessimo ballando, io uscii dalla doccia e feci entrare lei lasciandola sotto il getto d’acqua. Indossai l’accappatoio, tirai su il cappuccio. «Mi parlerai mai?» Le chiesi, alzò la testa senza guardarmi, fissava le mattonelle bagnate

      «Se ne dovessi vedere l’utilità» Mi rispose

      «Conoscendoti…»

      «Già! La troverò»

      Mi misi a ridere «Dio come sei divertente. Lo penso davvero, ci divertiremo un sacco io e te»

      Sbuffò e parlò nuovamente «Prendi in giro te stessa, non dimenticarlo»

      «Sei pesante. Prendo in giro te, non me stessa, io non sono più quello che sei tu» Dissi afferrando il pettine nero che era sul lavandino. Solo in quel momento si girò a guardarmi, prese il bagnoschiuma, se lo buttò addosso, prese la spugna e cominciò a sfregarsi così forte che la pelle divenne rossa «Ne sei proprio sicura?»

      Risi nuovamente «Ti manca la spavalderia per dire certe frasi. E quella me la sono presa io, sarebbe stato uno spreco lasciartela, veniva schiacciata dalla tua paura»

      «Nostra!»

      «Tua, tua, tua… basta! Sta’ zitta» Le urlai, puntandole addosso il manico del pettine particolarmente appuntito.

      Uscì dalla doccia mi afferrò la mano che teneva il pettine e si piantò il pettine nel petto. Io non provai dolore ma la sua faccia si contrasse in una smorfia, poi sentii qualcosa colare sul mio petto, lasciai il pettine girandomi verso lo specchio. Spostai l’accappatoio e vidi il sangue colare. Lei si tolse il pettine dal petto e mi parlò «Vedi? Anche se non faccio più parte di te, anche se mi hai allontanato perché ti sembro un peso troppo grande, un dolore troppo grande… anche se il tempo ti sembra scorrere meglio senza di me, anche se credi che cancellando le parti più fragili di te salverai le più forti. Anche se adesso il futuro ti sembra afferrabile e anche l’amore più semplice da gestire senza di me, sarebbe stato il caso di trovare un equilibrio fra le nostre fragilità, fra i nostri dolori e paure perché, vedi? Rimani comunque tu quella che sanguina e io quella che sente la ferita»

      Inviato su LETTERE A CORPI INCLUSI, Te l'ho mai raccontato? | 0 commenti | Tag ansia, paura
    • Il Dissennatore

      Posted at 11:55 by fedepis, on aprile 18, 2020

      Non sono la persona più coraggiosa che io conosca però se mi dovessero chiedere di indicare chi è la persona più paurosa che io conosca, umilmente direi: “Io” ! Lo direi con una risata e non c’è da stupirsi, dico un sacco di cose ridendo. Alla mia migliore amica ho detto di avere una malattia degenerativa ridendo e lei mi ha chiesto che cazzo avessi da ridere. E non lo so che cazzo avessi da ridere ma comunque ho riso.

      Devo dire la verità: i primi anni della malattia sono stati incredibilmente proficui, con il senno di poi. Già da quando iniziai a fare le visite. Ho cominciato a soffrire di ansia e mi mettevo in quarantena da sola però ho avuto il coraggio di cambiare facoltà, ho fatto nuove amicizie, ho iniziato a scrivere su giornali online, ho scritto moltissimo, ho smesso di fingere l’amore. Ma, ecco, io non sentivo niente. La paura c’era indubbiamente ma spuntava solo con l’ansia e con il panico. Quando ho imparato a gestirle, non ne avevo tanta. C’ero ma non c’ero.

      Poi sono diventata la persona più paurosa che io conosca, come se il non ritrovarmi allo specchio, avesse fatto diventare il mondo una giungla e io non sono né Tarzan né Jane. Negli ultimi due anni ogni passo in meno che ho fatto, ogni volta che sono caduta, ogni volta che un movimento del corpo si è dissolto, è stato come ricoprire di sabbia parti di me, belle parti di me: La capacità di capire come fare comunque in un altro modo quello che non potevo più fare nel modo classico. Oppure ridere anche quando non c’era un cazzo da ridere, di vivere il mondo pazientemente, ribellandomi a buche e marciapiedi alti, bagni inagibili. Esprimere le mie idee e scrivere quello che mi andava, tipo le recensioni di film o serie tv anche se non so farlo ma mi piaceva e lo facevo. Scrivere in generale, scrivere lettere, amavo scrivere lettere, lo amo ancora. Forse ho smesso di guardare abbastanza gli altri, di questo non sono tanto sicura. Di me vedevo solo quello che non era più possibile fare.

      C’era un Dissennatore, la bacchetta era caduta troppo lontano, non riuscivo a strisciare per riprenderla e lanciare un Expecto Patronus.

      E stanotte causa difficoltà a dormire e a causa di pensieri troppo vecchi per poter fare bene, ho pensato che prima di iniziare a strisciare ho capito di essere la persona più paurosa che io conosca e che il mio Dissennatore è un pezzo di merda.

      Inviato su GNE GNE GNE!, LETTERE A CORPI INCLUSI | 0 commenti | Tag amore, disabilità, disability, lettere
    • Pensieri sul corpo

      Posted at 12:58 by fedepis, on aprile 6, 2020

      Ho sentito la chiave girare nella serratura della porta, avevo lasciato loro le chiavi perché sono masochista e adesso i miei pensieri si sono chiusi dentro casa, come tutti noi. Dispersi sul mio corpo che è tutto ciò di cui hanno bisogno.

      Giocano su un’altalena che è qui nel mio stomaco e si sfidano a lanciarsi per aria per vedere chi cade in piedi, integro.

      Uno legge un manuale su un leggìo di legno poggiato su una scrivania, proprio in mezzo al mio cuore. Ogni tanto smette di studiare, mi guarda e comincia a ripetere ossessivamente le stesse frasi con un ghigno rabbioso.

      Altri ancora passeggiano sulla mia fronte, sembrano baci ma se mi distraggo diventano spilli e poi di nuovo baci.

      Due giocano al tiro alla fune con la collana che ho al collo per vedere chi potrà dormire sulle mie clavicole. Non so se sono più smemorati o stronzi ma ogni giorno tirano forte, a volte così forte che quasi soffoco finché non si ricordano che ne hanno una a testa di clavicola.

      Uno tira fuori una margherita dalla tasca, sospira, si siede sul mio muscolo pelvico, sospira di nuovo, incrocia le gambe e inizia il suo m’ama o non m’ama.

      Un altro è sulla mia testa che guarda film e ne immagina infiniti usando i miei capelli come un tappeto sul quale sdraiarsi e stare comodo.

      Sulle mie spalle altre due scrivanie ognuna per un pensiero. Uno ha una penna blu in mano e scrive poesie e storie, scrive se stesso senza pensarci troppo. L’altro scrive al computer, non mi sente perché ha la musica a palla, e le sue dita scorrono veloci sui tasti, a volte chiude gli occhi e muove il collo come se le idee provenissero dalla colonna vertebrale.

      Sui miei addominali si giocano partite di pallavolo, non hanno più di 15 anni questi pensieri. Alla fine non si capisce mai chi vince e in realtà non frega niente a nessuno. Poi si torna in classe e due di loro si nascondono in bagno per fumare, uno guarda, l’altro no.

      Molti sono ricercatori d’oro che affondano le mani nelle mie cosce e nei mie polpacci, bicipiti e tricipiti. Cercano qualche pezzo di muscolo ma i loro setacci sono sempre più vuoti e silenziosi.

      Ho pensieri sui miei palmi, tra le linee dell’amore, della vita, tra le mie dita. Si sfiorano tra loro, vestiti e no, presi da amori diversi. C’è chi ride, chi piange, chi sospira e chi si muove muto.

      Sulla mia schiena, le mie scapole diventano la panchina per il più piccolo dei miei pensieri, il più piccolo e il più vecchio. Rimane lì, assomigliandomi più di tutti. Ha i miei occhi, i miei desideri, i miei sensi di colpa, la mia speranza fatta rabbia. Vigila tutti tra un libro e l’altro. Qualche volta prende una fionda, degli orsetti haribo e dei kiwiwini che lancia a destra a sinistra, sotto e sopra. Così addormenta il pensiero nel cuore, sbilancia uno dei giocatori del tiro alla fune, sfama i ricercatori d’oro, salva un po’ di margherite, i pensieri sulla fronte diventano tutti baci, la partita di pallavolo si riempie di risate e quei due che fumano si scambiano un po’ di zucchero. Per ultimo dà da mangiare al pensiero sulla mia testa. Poi si sdraia sui libri tra le mie scapole e torna a leggere.

      Inviato su LETTERE A CORPI INCLUSI, Senza categoria | 0 commenti | Tag amore, disabilità, lgbt, quarantena
    • La primavera se ne frega

      Posted at 10:25 by fedepis, on marzo 12, 2020

      Negli ultimi anni ho sempre passato molto tempo a casa, a volte non avevo scelta: magari c’era troppo freddo, pioveva a dirotto oppure avevo dolore alle gambe. A volte la scelta c’era e comunque sceglievo di rimanere dove stavo, per motivi che con la malattia avevano poco a che fare. Nell’ultimo periodo avevo la certezza che avrei avuto, finalmente, un sacco di cose da fare, bellissime cose, fuori di casa. Poi mi sono ritrovata ad essere un soggetto a rischio già prima che tutta l’Italia diventasse zona rossa/protetta. Io sapevo di esserlo ma non ci volevo neanche pensare, io non volevo essere più a rischio di qualcun altro. Volevo mantenere la tranquillità stando girata di spalle e non è qualcosa della quale andare fiera. Anzi un po’ credo anche di vergognarmene. Hanno dovuto dirmelo che sono soggetto a rischio, l’ho dovuto ascoltare pronunciato dalla mia fisioterapista e poi da chi, avendo la mia stessa malattia, aveva parlato con il mio dottore. E all’improvviso, paradossalmente all’improvviso, tutte le cose bellissime si posticipano, tutte le cose di tutti si posticipano, ho anche l’impressione di dover posticipare il mio compleanno. Tutto il tempo che chiedevamo ci è arrivato addosso, e lo so che è un tempo diverso perché non abbiamo scelta ma è l’unica possibilità e dobbiamo usarlo adesso perché poi, quando tutto questo sarà finito, vorremo vedere casa il meno possibile, e vorremo tutti gli abbracci e i baci che non sapevamo di volere e di saper dare. Vorremo sentire il rumore, il vociare e vorremo scontrarci con la vita degli altri e intanto però stamattina ho scoperto che fortunatamente la primavera se ne frega e arriva comunque

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    • Bugie bianche

      Posted at 11:56 by fedepis, on febbraio 29, 2020

      Io non sono io, sono quell’altra, quella alla quale le bugie piacciono e anche le omissioni, che tanto in qualsiasi modo la giriate sono sempre bugie ma riempite di silenzio. Eh sì, sono quell’altra stronza che racconta cavolate per indorare la pillola, che si mangia le unghie e le mani alla ricerca della prossima bugia nella quale affogare e con la stessa bugia annaspare per vedere poi se sentirò dolore o senso di colpa. Il mio senso di colpa è il risultato di troppo senso di responsabilità verso gli altri, tutti gli altri, anche chi non se lo merita. Ma non posso essere responsabile senza bugie, non posso pensare che la limpidezza protegga qualcuno se in fondo non protegge neanche me.

      Io sono quell’altra, quella che cammina sulle proprie gambe e poi cade, si rialza, cade di nuovo e si rialza ma stavolta si ritrova appoggiata ad un bastone da passeggio. E vuoi che non sia io quell’altra che dice bugie? Io sono quell’altra che inciampa nelle scarpe di qualcuno, che si divincola schivando piroette imperfette, che tocca un muro non più bianco, che cade e si ritrova su una sedia a rotelle. Vuoi che non sia io quell’altra che ama le bugie?

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    • Promemoria

      Posted at 20:15 by fedepis, on febbraio 15, 2020

      Spesso non ricordo gli impegni, o meglio: non ricordo quelli che prendo con me stessa, perciò inserisco sveglie e promemoria. Una oretta fa stavo per segnare un promemoria e scopro che domani 16 febbraio 2020 il mio cellulare mi avrebbe fatto sapere questo:

      Ricorda: chiedetevi ciò di cui avete bisogno

      So perché questo promemoria io l’abbia scritto al plurale ma non so cosa dovrebbe succedere domani e io non so neanche perché dovrebbe succedere qualcosa e non credo succederà nulla. Domani sarebbe stato solo domani e dubito sia una frase di mia creazione ma difficilmente credo al caso; credo fermamente nelle connessioni, nella bellezza collaterale, credo persino che senza malattia i miei rapporti umani non sarebbero stati quello che sono stati, nel bene e nel male.

      So per certo che oggi è stata una giornata idiota come molte altre in questo lungo periodo. So che la mia testa molto spesso non è un luogo comodo dove passare il tempo né per me né per gli altri che tengo al riparo. Io e i miei pensieri battagliamo ogni giorno. Non tutti ma alcuni sono proprio degli stronzi e banchettano con i loro pensieri contrari a mio discapito. Vengono e vanno via senza interessarsi del fatto che dovrei dormire, studiare, respirare, scrivere. Sanno che a volte le energie vanno centellinate, sanno che devo farlo adesso, perciò sembro una di quelle madri che cedono ai capricci di quei figli che sanno che più urlano e piangono, più ottengono. Ma in fondo credo che chiunque stia leggendo sappia cosa io voglia dire.

      So per certo che non posso ringraziare la persona che mi ha inconsapevolmente obbligato ad aprire l’app, mi prenderebbe per pazza e se fossi più strafottente lo farei. La ringrazierei perché dovrei ricordarmelo di chiedere ciò di cui ho bisogno alle persone che amo, che dovrei chiederlo a me stessa ciò di cui ho bisogno senza cercare disperatamente di essere qualcosa che alla fine dei conti non sono mai. Dovrei chiedermi la strafottenza, dovrei prendere le mie parole, le mie soddisfazioni, le mia sicurezza in me stessa, la consapevolezza di aver fatto cose giuste, a volte anche perfette, che dovrei prendermi il tempo per tutto quello che fa schifo.

      In questi giorni mi gira in testa la frase: sarò quercia! Ed è vero: io sarò quercia, anche se a volte su questo ho mentito ma lo sarò e in fondo un po’ lo sono. Forse è era questo il punto del promemoria, dire: sarò quercia, sono quercia ma posso comunque chiederti di cosa hai bisogno e tu puoi chiederlo a me. E possiamo darci quello di cui abbiamo bisogno anche se sono quercia.

      Non lo so, sta di fatto che il promemoria domani suonerà comunque.

      Inviato su LETTERE A CORPI INCLUSI, Senza categoria | 0 commenti | Tag amore, disabilità, lettere, lgbt
    • Il titolo non serve

      Posted at 14:05 by fedepis, on gennaio 26, 2020

      Credo di essere diventata disabile quando lo sono diventata per l’inps. Poi lo sono diventata un po’ di più quando ho iniziato ad avere bisogno del braccio di qualcuno per mantenere l’equilibrio, un altro po’ quando ho comprato un bellissimo bastone da passeggio nero e pieno di fiori. Lo sono diventata un altro po’ quando sono state fatte modifiche alla macchina così da poter essere guidata da me e da mia sorella. La penultima tacca è stata la sedia a rotelle, l’ultima il non poter più guidare…

      Ad ogni tacca aggiunta sentivo perdersi il contatto tra me e il mondo fisico, la materia. Avete idea di quante cose le vostre mani tocchino? Su quanti pavimenti diversi poggiate i piedi? Vi ricordate l’ultima volta che avete camminato e ballato sull’erba umida? Io sì. Avete idea di quanti corpi il vostro corpo sfiora? Di quanto il rapporto fra voi e gli altri sia assolutamente fisico? Di quanto il supportare abbia a che fare con qualcosa di fisico?

      Io sì, l’ho imparato quando ho iniziato a dover chiedere di essere messa su un fianco e che il mio braccio destro venisse poggiato sul fianco della persona accanto a me per poterla abbracciare. Quando abbracciare la persona che amavo perché io volevo o lei voleva ha implicato chiedere di creare il movimento e di dimenticare l’improvvisazione. Quando le azioni da poter compiere da sola si sono ridotte drasticamente e sono rimaste le parole ed il pensiero… quando ad un certo punto ho pensato che beh dai è vero, esattamente il mio aiuto in cosa potrebbe mai consistere? Il mio amore in cosa è consistito e in cosa consiste? Il mio dolore sembra più consistente del mio amore e non è giusto perché che se ne fa qualcuno di un amore che non può esprimersi attraverso la materia? Quanto dovrei essere “pazzescah” e quanto dovrebbe essere “pazzescah” l’altra persona per superare questo gap? E soprattutto di che cazzo parliamo: io sono indubbiamente pazzescah, lo ero già prima della 104. Ma le mie parole superano la materia? Le mie parole sono materia?

      È un pensiero che ritorna spesso in questo ultimo periodo e in due momenti diversi due mie amiche mi hanno detto: ti prendi cura… Poi l’altra sera Ragazzino (un’altra mia amica che vive fuori Sicilia) mi ha chiesto perché le avessi nascosto un mio momento di malessere negandole la possibilità di prendersi cura di me visto che io mi prendo sempre cura di lei. Non ho detto niente, ho dato una spiegazione al mio atteggiamento ma non l’ho ringraziata, non ho ringraziato nessuno di loro tre e avrei dovuto perchè mi hanno detto che mi prendo cura e io non me ne sono accorta, oppure l’ho dimenticato.

      Ho pensato che sono proprio una stupida e sarò una stupida ogni volta che penserò che tutte quelle tacche mi hanno trasformata in qualcuno con più parole che altro e quindi in un qualcuno che non può amare abbastanza e a sufficienza perché difetta di materia.

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    • Post sull’amore

      Posted at 15:26 by fedepis, on gennaio 12, 2020

      Avevo pensato di scrivere qualcosa sull’amore. Non so perché, cioè non è San Valentino e io neanche ce l’ho l’amore, quindi non lo so. Avevo pensato che ne sarebbe uscito un post struggente se avessi avuto qualcosa da dire senza ricorrere a racconti su motocicliste ed eroine, donne che si regalano la pelle, o che vagano confuse in un parco alla ricerca del loro amore attraverso i ricordi come Pollicino torna a casa seguendo mollichine. Credevo di poter scrivere un post sull’amore senza lasciare mollichine per una Pollicina.

      Avrei anche molto da dire sull’amore così, senza girarci intorno, diretta! Ma le figure retoriche, quelle stronze… mi innamorano ogni volta che ne uso una. Forse perché in fondo non si lamentano mai, a volte si imbronciano ma stanno sempre lì a dirmi che posso dire senza dire. A dirmi che sono il mio costume di carnevale e va bene così. Mi dicono che loro tra le mie mani, sulla mia bocca ci stanno comode e che quindi anche io le faccio innamorare.

      “Salvaguardiamo il tuo pudore, per metà perso in una serie infinita di cazzate. Ti rendiamo poetica quando non lo sei. Ti regaliamo immagini e suoni. Ti facciamo diventare quello che vuoi perché per noi sei un po’ di tutto. Ti restituiamo la bellezza che credi di non avere. Ti proteggiamo e ti esponiamo. Sì facciamo anche questo quando non te ne accorgi” mi dicono

      Ah! Forse ho scritto un post sull’amore

      Inviato su Senza categoria | 1 Commento
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    • L’arte di essere nessuno

      La maggior parte delle volte in cui un bicchiere di vetro ricolmo di acqua cade per terra, la colpa è della distrazione. Tornando indietro, in fondo, avremmo potuto evitarlo. Se non l’avessimo posizionato così vicino al bordo del tavolo, oppure se l’avessimo spostato in tempo, prima che il nostro gomito lo colpisse, non sarebbe mai caduto e noi non avremmo rischiato di ferirci camminando su dei pezzi di vetro a piedi scalzi. Sophia lo guarda cadere, il bicchiere. Sente il tonfo, lo vede infrangersi sul pavimento e, nello stesso istante, lei fa la medesima fine.
      Per tutto il romanzo, con il suo strano modo di camminare, Sophia vede esplicarsi al di fuori di sé la malattia genetica che porta dentro. Tutto è una perdita di equilibrio, in tutto c’è odore di arance rosse e succose che scivolano via dalle mani di un giocoliere e si infrangono sui pezzi di vetro. Ma chi è il giocoliere? È davvero chi crede Sophia?
      Attraverso flussi di pensiero, flashback, cambi di persona, decostruzioni e ricostruzioni, Sophia si rende conto che nulla era come credeva, che la ricerca di qualcuno implica sempre la ricerca di se stessi e che, forse, è proprio vero che si comincia dalla fine.
      – RobinEdizioni

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