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Scrittrice su due ruote, quattro quando non impenno
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    • Lui sa

      Posted at 9:44 by fedepis, on febbraio 15, 2021

      Quando ho smesso di poter fare molte azioni da sola, mi sono accorta che non avevo le parole. Non nel senso che sono rimasta senza parole, nel senso che non avevo le parole giuste per spiegare le cose. Cose che non avevo mai dovuto spiegare.

      Sapevo quale fosse il mio modo, per me giusto, di lavarmi i capelli, asciugarmeli, pettinarli, il mio modo di lavarmi la faccia. Sapevo quanto dentifricio volessi sullo spazzolino. Come non farmi male mentre mi toglievo le sopracciglia. Come truccarmi, mettermi le lentine e toglierle. Il mio modo di infilarmi la maglietta. Non dovevo spiegarlo, le mie braccia, le mie mani, il mio collo, le mie gambe e piedi, conoscevano tutto senza bisogno di parole. Il mio corpo sa quando vuole spegnere la luce o accenderla, quando ha freddo o caldo, fame e sete. Il mio corpo sapeva e il mio corpo sa ma all’inizio non sapeva come spiegarsi, come spiegare che sapeva tutto.

      Non sapeva neanche come spiegare a se stesso che le mani degli altri non sono le sue mani ma devono esserlo, che si deve sforzare anche se tutto quello che fanno gli altri lui lo farebbe 300 volte meglio perché lui sente e io sento la frustrazione e a volte il fastidio, la resistenza. La mia faccia si contorce per evitare di far trapelare tutto perché “io lo avrei fatto meglio”. Perché vorrei le mie mani o le mani che dico io.

      E allora la mia testa cerca le parole per il mio corpo, per tirarlo fuori da se stesso con educazione, pazienza e compromesso. Anche quando vorrebbe dire: “No, oggi non mi tocca nessuno, oggi faccio tutto da sola.”

      E io al mio corpo, malandato per com’è, malandrino per certi aspetti, stronzo, vendicativo a volte, devo tutte le parole del mondo

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    • Il tempo mio

      Posted at 9:33 by fedepis, on settembre 16, 2020

      Una grande percentuale di me è fatta di attesa, l’attesa di qualcuno o di qualcosa, dell’INPS, in fondo è insito nell’essere disabile. Aspettiamo tutti qualcosa ma per qualcuno l’attesa si dilata e contamina ogni aspetto della propria vita. A mio parere, almeno.

      Senza accorgermene ho iniziato a vivere sulla scia di due tempi: il tempo mio e il tempo degli altri. Il tempo degli altri è il tempo degli altri, con le sue condizioni, i suoi inciampi e incidenti di percorso, colpi di fortuna.

      Il tempo mio è decisamente Ariete, andrebbe veloce, sarebbe un po’ esaurito, riempito da mille cose che magari non porterei a compimento, tanti inizi con nessuna fine. Sarebbe multitasking, impetuoso e calmo anche per solo dieci secondi che riuscirei a far durare di più. Il tempo mio inizierebbe la mattina presto, perdendosi in un libro, affogando in un caffè.

      l tempo mio fa compromessi con il tempo degli altri, i suoi slanci sono dipendenti e a volte in questa dipendenza muoiono. Il tempo mio ha poco di me, nel senso che sono sua solo in parte, ma lo creo a mia immagine e poi cerca di resistere all’implosione. Il tempo mio a volte fa i capricci, batte i piedi per terra per farsi sentire, diventa scorbutico, cattivo, scivoloso. Il tempo mio a volte balla di fronte uno specchio e prende forme precise.

      Il tempo mio conosce l’attesa, è il suo super potere non richiesto

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    • Le Stanze di un Circo

      Posted at 12:11 by fedepis, on luglio 31, 2020

      Io e le circostanze, non ci ho mai pensato. E mi sembra di parlare di stanze da circo e forse lo sono. Forse sono dentro le stanze di un capannone di un circo che fuori cambia sempre, che gira mondi diversi che possono esistere davvero.

      Io sono le mie circostanze, ho capito questo. Sono la maggior parte delle mie circostanze e il motivo per il quale potrei odiarle. Io sono il circo e le stanze, la donna cannone che sparisce in mezzo alle stelle, la donna che doma le tigri, e la trapezista che si lancia sperando di afferrare le mani di qualcuno senza dover toccare la rete di sicurezza. Sono la pagliaccia matta che ride e piange e piange e ride, e che spera di non soffocare dentro una cinquecento con dentro altre pagliacce come me. Sono la contorsionista che chiede al proprio corpo di fare cose che non farebbe se potesse scegliere. Sono la funambola, l’illusionista che fa sparire il contenitore per mostrare tutto il contenuto inaspettato.

      E dentro queste stanze di questo circo, di queste circostanze, che creano impedimenti, frenate, inversioni a U, illusioni e treni comunicanti e che scomunicano me, che mi fanno ridere dell’assurdo, e della vita senza casualità… qui in mezzo, sotto, sopra, sottosopra, sotterrata, nascosta, invischiata, innalzata… io qui!

      Io che sono anche la spettatrice che chiede sempre qualcosa. Qui a chiedere qualcosa alle circostanze , seduta su una sedia rossa con infiniti pacchi di Oreo (nel mio circo ci sono gli Oreo) perché ci sarà tanto da aspettare per guardare le risposte

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    • Perché imparare a non ridere se puoi imparare a ridere?

      Posted at 10:37 by fedepis, on luglio 23, 2020

      Ho frequentato l’asilo e le elementari dalle suore, era la scelta migliore in quel momento per i miei genitori, visto che lavoravano entrambi. I miei ricordi di quegli anni sono prevalentemente in quella scuola, riferiti alla Direttrice e le sue mani da muratore, a Suor T. e il suo divertimento nel pestarci i piedi come se stesse giocando ad “acchiappa la talpa”, alla professoressa di inglese che è riuscita a non insegnarci l’inglese ma sempre a farsi regalare vasi o brocche a Natale. Sono legati alle loro risate per cose che a noi non facevano ridere ma piangere, a punizioni opinabili, a spiegazioni sul mondo e sui nostri genitori che probabilmente volevano solo portarci ad andare dallo psicologo fatti i 18 anni, nel mio caso ci sono riuscite. Mi ricordo che avremmo avuto un sacco di cose da poter raccontare ma nessuno di noi lo ha mai fatto.

      Però la pasta al pomodoro era buona, la cioccolata nel panino era buonissima quando il panino era caldo, i gelatini con la meringa erano buoni, scoprire che alla fine avevano tutti lo stesso sapore anche se di colore diverso, era bello. Era divertente lo sforzo di trovare qualche peccato da confessare che fosse più creativo del solito: “ho fatto la monella”, una volta ho inventato di aver detto a mia madre: scema. È stato un momento avvincente! Ricordo le mie mani che passavano sulla lavagna per mischiare il colore dei gessetti colorati. Ricordo la paura della scivola che volevo fare in ogni caso quindi la facevo a pancia in giù e qualche volta anche a testa in giù, ma voglio dire, non spiccavo per furbizia. Ricordo i giochi con le mie compagne e i miei compagni. Le gite e le inutili ore di ginnastica, il flauto che suonavo per finta, le risate in chiesa e Suor P. che si addormentava ogni due per tre dopo anni di carriera.

      Tutto quello che ricordo di divertente non ha niente a che fare con loro, anche se può sembrarlo. È un NONOSTANTE LORO, è un “vi rubo qualcosa di bello e lo tengo per me perché voi con la bellezza non avete mai saputo farci niente.” Sono diventata brava con i nonostante tutto, non sono costante ma meglio di niente.

      E perciò non mi interessa: voglio le mani sporche di gessetti, che la cioccolata coli dal pane, e siccome ho paura delle discese, voglio farle all’indietro e vaffanculo. E voglio ridere per le cose belle, che mi sembrano belle, voglio giocare e ricordarmi che lo so fare perché l’ho sempre saputo fare e non sono mai stata stupida.

      Inviato su LETTERE A CORPI INCLUSI, Senza categoria | 0 commenti
    • A tempo perso

      Posted at 17:33 by fedepis, on luglio 11, 2020

      Io e il tempo! Ci penso spesso a noi due, a me e al tempo intendo. Ad una certa età, con una malattia un po’ degenerativa, viene spontaneo pensarci, così, a tempo perso. Penso al mio di tempo, se la mattina dopo mi sveglierò inseguendolo o con lui che mi insegue. Se andremo all’unisono rispettando le distanze per non mischiarci troppo. Se sarà una staffetta o un tranquillo giro di campo.

      Penso a quando l’ho odiato e poi è sparito lasciando errori e nessuna gomma da cancellare. A come gira e balla sui miei nervi, come mi butta addosso l’istinto di fare velocemente qualcosa o di farlo lentamente, di lasciarlo scorrere come se io potessi scorrere su di lui. Penso alle sue illusioni.

      Penso a tutte le volte nelle quali ha ricominciato a muoversi e io ero sempre diversa perché lui si mette sempre qualcosa in tasca e qualcosa la lascia. Penso che mi posiziona di fronte sempre più malattia ma che magari un giorno lui se la porterà via per sempre e non proverà a restituirmela.

      Penso che si è innamorato dei miei bellissimi sogni e siccome l’amore è amore, ha pensato di tenerseli per sé scambiandoli con la GNE, senza lasciarmeli guardare bene per l’ultima volta, senza darmi il tempo per qualche compromesso. «Eh ragazza, i colpi di fulmine non si prevedono», mi ha detto soddisfatto.

      Forse non me lo meritavo, forse neanche me li meritavo, e non lo sapevo. Ne ho fatte collane dei miei sogni così lunghe da inciamparci quando non lo faceva la malattia. Intorno al collo avrei potuto guardarli e sentirli comunque.

      Poi un pomeriggio, tra un chiosco e un cane che pisciava, mi ha urlato che sono una stupida rompi palle, che non capisco niente, che il merito non c’entra, che mi merito quello che voglio e pure le collane sulle quali inciampare perché magari capisco che è il momento di toglierle e farci quello che si fa con i sogni. Che io me li meritavo i miei sogni ma doveva prendersene cura mentre io mi prendevo cura di me, così che potessi imparare il cambio di prospettiva e i miei occhi.

      «Te li restituisco i tuoi sogni bellissimi e capaci, stronza malapensante!»

      Inviato su LETTERE A CORPI INCLUSI, Senza categoria | 0 commenti | Tag disabilità, tempo
    • La percezione di noi/me/voi

      Posted at 9:16 by fedepis, on luglio 2, 2020

      È una regola: nel bene o nel male, difficilmente la percezione che avete di voi stessi corrisponde a quella che gli altri hanno di voi. Ci vuole impegno, stanchezza e sforzo per farle combaciare e, nel bene o nel male, non è detto combaceranno.

      La percezione che io ho di me stessa è appiccicosa come i cirios, è atavica, infantile e adolescente, dipende dalle circostanze. Corrisponde a volte alla vostra percezione di me stessa. La percezione che ho di me stessa si staglia contro scogli che si sgretolano. La percezione di me stessa migliora se mi impegno e ripeto le stesse frasi nella testa come una poesia da dover imparare a memoria, e sono io la mia poesia.

      La percezione che ho di me stessa è tormento e salvezza, vergogna che resta e vergogna che sparisce. Compie gli anni e il regalo lo fa a me. La percezione che ho di me stessa all’improvviso disegna ghirigori sul mio corpo, sui miei muscoli e i miei movimenti imperfetti. Perché la percezione di me stessa si scinde e il mio contenitore e il mio contenuto si confondono, sovrappongono e si distruggono cercando un modo di amarsi coerente.

      La percezione che ho di me stessa è orgogliosa ma influenzabile, ha parole altrui stampate a ferro e fuoco. Ma è una stronza arrogante e piena di pretese, la peggiore e la migliore donna della mia vita. Bella e morbida quando si lascia abbracciare, odiosa quando scappa via perché i traumi reiterati sembra giusto portarseli addosso come medaglie.

      La percezione che abbiamo è causa ed effetto di sogni da modificare, di persone da dimenticare, di bugie da rivalutare e verità da pesare e passa necessariamente da tutti gli altri

      Inviato su Senza categoria | 0 commenti
    • Lista di cose da riprendere

      Posted at 19:40 by fedepis, on giugno 19, 2020

      • Il balsamo per quando vorrò sprofondare tra i miei capelli

      • Il cuscino morbido per quando vorrò far sprofondare pure il cervello

      • Il gommone di salvataggio per quando quasi affogo

      • La respirazione bocca a bocca per quando ho bevuto troppo

      • Le chiusure di sicurezza per quando vorrò aprire i cassetti e gli sportelli sbagliati

      • I gommini per quando mi vorrò trascinare senza farmi sentire

      • Il mantello dell’invisibilità per quando non vorrò farmi trovare

      • Il mio stesso abbraccio per quando avrò paura del buio

      • “Giù la testa” fischiettata per quando non riuscirò a dormire

      • Le catene per quando vorrei raggiungere delle sirene stronze

      • Hermione per quando i miei Harry e Ron non saranno in grado di salvarmi

      • Uno stecco di legno per quando non riuscirò a tenermi in piedi

      • Un corpo incluso per quando mi sentirò esclusa

      • Onomatopee per quando non avrò parole

      • Sancho Panza quando avrò bisogno di essere assecondata

      • Un paio di occhiali da sole per quando sarò accecata

      • Un paio di cuffie per quando non vorrò sentire

      • La mia voce per quando sarò arrabbiata

      • Le mie lacrime per quando avrò paura, per quando sarò felice

      • La mia tenerezza per quando non mi sentirò abbastanza

      • Le mie battute stupide per quando la GNE sarà troppo

      • I pezzi di cuore, del mio cuore, per sempre, per tutto

      Inviato su Senza categoria | 0 commenti | Tag amore, disabilità, lgbt
    • Vasi comunicanti e altre cose a caso

      Posted at 19:41 by fedepis, on giugno 14, 2020

      Da quando sono malata mi sono accorta che la mia vita procede a scatti, ma che in fondo sia così per chiunque tranne per chi vuole che capiti sempre qualcosa, anche cose a caso, anche cose inutili, sofferenze inutili, finti amori inutili, scorciatoie che portano solo a strade che “non spuntano”. È così per tutti, e mi rendo conto che mi affanno a nasconderlo, a fare sempre qualcosa perché se fai qualcosa secondo la cultura di massa: stai bene! Ma posso stare bene anche senza fare niente.

      Per me è come se ogni tot tempo ci fosse un edizione speciale alla tv che dirama un lockdown. È come alzarsi ma stare comunque seduti, è come saltare sul letto ma qualche volta sbattere la testa nel tetto.

      E quando sto seduta… va beh io sono sempre seduta ma quando sto seduta dentro il mio corpo mi sembra di diventare una specie di contenitore, un pensatoio che potrebbe essere anche utile se la riproduzione della bacchetta magica di Harry Potter che ho nell’armadio funzionasse. Ma non funziona e io posso contenere tutto e tutti, i miei pensieri e i pensieri degli altri. Lo so, lo so non è un discorso umile ma non posso essere perfetta. Non si può contenere per sempre, non mi posso contenere per sempre, contenersi da soli non credo sia fattibile, perché tanto o si rompe da solo sto contenitore o qualcun altro toglie il tappo e finisce che succede un casino come con il vaso di Pandora, oppure che fai spuntino con il frutto sbagliato, fate voi…

      Allora penso che io non voglio contenere nessuno per intero e che non voglio che qualcuno contenga me per intero, io non voglio contenermi per intero, voglio avere la sincerità di dare e di ricevere pure da seduta, la libertà di versarmi in qualcuno e che qualcuno si versi in me raggiungendo lo stesso livello di qualsiasi cosa sarà il turno di contenere.

      Voglio “il principio dei vasi comunicanti”

      Inviato su GNE GNE GNE!, Senza categoria | 0 commenti | Tag amore, disability, lgbt
    • Lettera al corpo 2.0

      Posted at 15:45 by fedepis, on maggio 30, 2020

      Ti immagino come quercia, una ninfa che è diventata quercia con la mente alle sue radici.

      Sei disagio, sei il freno ai miei istinti, sei ispirazione a volte, sei la fine e l’inizio a volte. Sei rabbia quasi sempre e amore di sfuggita. Sei la lotta continua per cercare di combaciare. Io e te combaceremo mai? Ne varrebbe le pena?

      Sei disagio per il disagio di scriverti così come qualcosa che non vorrò mai e che non riconosco. Ti riconoscerò mai? Prima o poi dovrò pur amarti, prima o poi dovremmo accettare che il nostro è un matrimonio imposto desiderosi di un divorzio che non potrà mai essere concesso.

      Sei odio e sensi di colpa… i miei sensi di colpa hanno nome e cognome, facce e ruoli, professioni e caratteri. Sei paura continua e fottuta e forse sei più di tutto questo.

      Devo essere Xena con un involucro del cazzo, me lo urli di continuo e lo so che non te lo meriti. In fondo neanche tu hai scelto qualcosa, mica lo fai apposta… non ci divertiamo per niente insieme ma se magari il mio cervello ti mangiasse, se il mio cervello vincesse sui tuoi cambiamenti, se tu diventassi più leggero e morbido, se tu diventassi una cosa che sento meno mia, se mi appartenessi di meno. Lo so cosa stai pensando, corpo mio, che tu in tutto questo non c’entri poi tanto, che la quercia è la mia mente e tu sei ai suoi piedi ogni giorno a reclamare un po’ di pietà e buona educazione, meno dolore. Mi preghi di concederti perdono e opportunità, l’opportunità di una vita assurda ma normale, di amore tutto nostro fino alla fine di noi, oltre l’abbandono e il rifiuto, il panico e l’ansia.

      La verità è che ti cerco e tu cerchi me tutti i giorni, tutto il tempo.

      Inviato su Senza categoria | 0 commenti
    • Posted at 12:05 by fedepis, on maggio 10, 2020
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    • L’arte di essere nessuno

      La maggior parte delle volte in cui un bicchiere di vetro ricolmo di acqua cade per terra, la colpa è della distrazione. Tornando indietro, in fondo, avremmo potuto evitarlo. Se non l’avessimo posizionato così vicino al bordo del tavolo, oppure se l’avessimo spostato in tempo, prima che il nostro gomito lo colpisse, non sarebbe mai caduto e noi non avremmo rischiato di ferirci camminando su dei pezzi di vetro a piedi scalzi. Sophia lo guarda cadere, il bicchiere. Sente il tonfo, lo vede infrangersi sul pavimento e, nello stesso istante, lei fa la medesima fine.
      Per tutto il romanzo, con il suo strano modo di camminare, Sophia vede esplicarsi al di fuori di sé la malattia genetica che porta dentro. Tutto è una perdita di equilibrio, in tutto c’è odore di arance rosse e succose che scivolano via dalle mani di un giocoliere e si infrangono sui pezzi di vetro. Ma chi è il giocoliere? È davvero chi crede Sophia?
      Attraverso flussi di pensiero, flashback, cambi di persona, decostruzioni e ricostruzioni, Sophia si rende conto che nulla era come credeva, che la ricerca di qualcuno implica sempre la ricerca di se stessi e che, forse, è proprio vero che si comincia dalla fine.
      – RobinEdizioni

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