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Scrittrice su due ruote, quattro quando non impenno
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  • Categoria: LETTERE A CORPI INCLUSI

    • 1-1-2021

      Posted at 12:48 by fedepis, on gennaio 1, 2021

      È il primo Gennaio 2021, si dice che i pensieri non puoi fermarli la notte, che la notte diventano prepotenti e il silenzio ne aumenta il volume, che spesso le idee migliori arrivino di notte e allora se si è artisti è bene avere sempre qualcosa a portata di mano sulla quale poter prendere appunti, perché poi la mattina potresti non ricordare più bene. É una bugia! Le idee migliori, le illuminazioni inaspettate arrivano per di più quando si è al bagno.

      Ci potrei mettere la mano sul fuoco di quanta ispirazione sia stata imputata, mentendo, a una notte piovosa passata sotto le coperte da soli, seduti su una poltrona con un bicchiere di vino in mano, a una passeggiata lungo il Danubio oppure a un panorama da togliere il fiato e invece il genio artistico era semplicemente al bagno. Che poi, ammetterlo avrebbe solo potuto farne aumentare l’ammirazione altrui.

      E niente oggi è il primo Gennaio 2021 ed ero al bagno, e ho pensato a questo 2020. Che poi riflettendoci bene: dove vuoi pensarlo, in parte, il 2020 se non al bagno? Comunque ho avuto una illuminazione, ho già scritto che quest’anno, sono successe anche cose bellissime. Le ho chiare nella mia testa, alcune di queste cose hanno nomi di persone, qualcuna ha solo il mio nome. Poi ce n’è una che non ha nome, mi sono resa conto che ad un certo punto ho deciso di smettere di vivere dentro il mio corpo malato, metaforicamente! Metaforicamente ho traslocato dentro la mia testa, ho smesso di lasciare che la GNE diventasse un limite, non ho smesso di avere paura, ma ho, forse tardi, capito come usare il mio limite. Lo ammetto! Sono una di quelle persone che hanno considerato per qualche tempo più facile rifugiarsi nella paura piuttosto che in tutto il resto perché in fondo se stai già lì, niente può andare male. La felicità, quello che amiamo ha consistenza di cristallo, la paura è piombo.

      Ma il cristallo salva dal piombo, e la mia origine è il mio cristallo, l’amore che posso dare e ricevere nonostante tutto. Una corda spessa da non mollare. La consapevolezza che posso essere costante, che posso guardare dritto e non mollare la presa, provarci e riuscirci. Andare oltre i miei fottuti geni. La mia origine è le mie storie, la mia storia, il cinema e il fatto che sia stato il mio rifugio. Perché il cinema é mio padre, anche se non lo sa, è il modo che conoscevamo per sopperire alla mancanza di coraggio, al vuoto riempito da sensi di colpa, all’abbandono a rilascio lento.

      Adesso il cinema è me stessa oltre di me, oltre i miei muscoli, oltre il mio essere silenziosa e distratta, è la collocazione della mia distrazione e del mio silenzio, il rifugio dal piombo e la sua sdrammatizzazione. Le mie parole che si rinvigoriscono. È io che ballo, io che corro, io che ci provo e ci riesco. È la stanza di cui ha parlato Virginia Woolf … è la stanza tutta per me.

      Non vi auguro solo un buon 2021, vi auguro sempre di guardare avanti, di avere illuminazioni anche al bagno, di coccolare la vostra felicità, come fosse il cristallo di luna e foste Sailor Moon. Vi auguro di trovare un cristallo che vi faccia lasciare il piombo, di trovare la vostra e solo vostra corda da tenere stretta e non lasciare mai neanche quando vi dicono che non è cosa per voi, anche quando crederete di non avere più le forze, di aver perso il tempo giusto. Vi auguro di riutilizzare i vostri limiti e di non avere paura della paura.

      Inviato su LETTERE A CORPI INCLUSI | 4 commenti | Tag amore, capodanno, disabilità
    • Lettera a Babbo Natale

      Posted at 8:13 by fedepis, on dicembre 20, 2020

      Ehi Babbo, me ne sono accorta! Sembro cretina ma lo sono solo un po’. Me ne sono accorta: niente misantropia l’anno scorso. Effettivamente non ne avevo bisogno, ci ha pensato il covid. Pure adesso a Natale saremo tutti un po’ più soli. Tu dovrai indossare la mascherina cucita da tua moglie, in realtà non è che ne avresti proprio bisogno, non c’è mai nessuno a un metro di distanza da te. Però, onde evitare, mettila e non bere da tutti i bicchieri del mondo. Portati un termos con del latte caldo tutto tuo (non corretto), portati i tuoi biscotti e l’amuchina, pure per le renne. Diciamolo che non è come quella pubblicità dove sei pieno di fratelli e mandi loro al posto tuo. Almeno l’idea di te lasciamola intatta.

      È stato un anno difficile, siamo tutti più stanchi, ma non migliori. Siamo obbligati a scavare nel fondo della magia del Natale e inoltre quest’anno la programmazione natalizia non è granché. Lo sanno pure i bambini che sarà tutto diverso, paradossalmente lo sarà anche per chi il Natale è sinonimo di malinconia. Non cambia il fatto che sarà più malinconico per tutti gli altri. Non c’è mal comune mezzo gaudio, non c’è la novità della quarantena e non ci metteremo a cantare Jingle Bells o Tu scendi dalle stelle dai balconi perché c’è freddo. Staremo lì senza sapere se vogliamo che queste feste passino il più presto possibile oppure no. Staremo lì a compilare autocertificazioni, a contarci, a chiederci se siamo amici abbastanza. Guarderemo le luci dell’albero e del villaggio di Natale, del Presepe. Ci verranno un po’ i brividi per quegli assembramenti e spereremo che una di queste luci aumenti di luminosità fino a riportarci ad una realtà simile a quella che conoscevamo.

      Però ti devo dire una cosa Babbo: ci proverò a trovare comunque la magia perché anche se è andata così, quest’anno mi hai regalato cose così belle e inaspettate che non ho proprio niente da chiederti.

      Fai il bravo e grazie

      Federica

      Inviato su LETTERE A CORPI INCLUSI | 2 commenti | Tag amore, Babbo Natale, Natale
    • Perché imparare a non ridere se puoi imparare a ridere?

      Posted at 10:37 by fedepis, on luglio 23, 2020

      Ho frequentato l’asilo e le elementari dalle suore, era la scelta migliore in quel momento per i miei genitori, visto che lavoravano entrambi. I miei ricordi di quegli anni sono prevalentemente in quella scuola, riferiti alla Direttrice e le sue mani da muratore, a Suor T. e il suo divertimento nel pestarci i piedi come se stesse giocando ad “acchiappa la talpa”, alla professoressa di inglese che è riuscita a non insegnarci l’inglese ma sempre a farsi regalare vasi o brocche a Natale. Sono legati alle loro risate per cose che a noi non facevano ridere ma piangere, a punizioni opinabili, a spiegazioni sul mondo e sui nostri genitori che probabilmente volevano solo portarci ad andare dallo psicologo fatti i 18 anni, nel mio caso ci sono riuscite. Mi ricordo che avremmo avuto un sacco di cose da poter raccontare ma nessuno di noi lo ha mai fatto.

      Però la pasta al pomodoro era buona, la cioccolata nel panino era buonissima quando il panino era caldo, i gelatini con la meringa erano buoni, scoprire che alla fine avevano tutti lo stesso sapore anche se di colore diverso, era bello. Era divertente lo sforzo di trovare qualche peccato da confessare che fosse più creativo del solito: “ho fatto la monella”, una volta ho inventato di aver detto a mia madre: scema. È stato un momento avvincente! Ricordo le mie mani che passavano sulla lavagna per mischiare il colore dei gessetti colorati. Ricordo la paura della scivola che volevo fare in ogni caso quindi la facevo a pancia in giù e qualche volta anche a testa in giù, ma voglio dire, non spiccavo per furbizia. Ricordo i giochi con le mie compagne e i miei compagni. Le gite e le inutili ore di ginnastica, il flauto che suonavo per finta, le risate in chiesa e Suor P. che si addormentava ogni due per tre dopo anni di carriera.

      Tutto quello che ricordo di divertente non ha niente a che fare con loro, anche se può sembrarlo. È un NONOSTANTE LORO, è un “vi rubo qualcosa di bello e lo tengo per me perché voi con la bellezza non avete mai saputo farci niente.” Sono diventata brava con i nonostante tutto, non sono costante ma meglio di niente.

      E perciò non mi interessa: voglio le mani sporche di gessetti, che la cioccolata coli dal pane, e siccome ho paura delle discese, voglio farle all’indietro e vaffanculo. E voglio ridere per le cose belle, che mi sembrano belle, voglio giocare e ricordarmi che lo so fare perché l’ho sempre saputo fare e non sono mai stata stupida.

      Inviato su LETTERE A CORPI INCLUSI, Senza categoria | 0 commenti
    • A tempo perso

      Posted at 17:33 by fedepis, on luglio 11, 2020

      Io e il tempo! Ci penso spesso a noi due, a me e al tempo intendo. Ad una certa età, con una malattia un po’ degenerativa, viene spontaneo pensarci, così, a tempo perso. Penso al mio di tempo, se la mattina dopo mi sveglierò inseguendolo o con lui che mi insegue. Se andremo all’unisono rispettando le distanze per non mischiarci troppo. Se sarà una staffetta o un tranquillo giro di campo.

      Penso a quando l’ho odiato e poi è sparito lasciando errori e nessuna gomma da cancellare. A come gira e balla sui miei nervi, come mi butta addosso l’istinto di fare velocemente qualcosa o di farlo lentamente, di lasciarlo scorrere come se io potessi scorrere su di lui. Penso alle sue illusioni.

      Penso a tutte le volte nelle quali ha ricominciato a muoversi e io ero sempre diversa perché lui si mette sempre qualcosa in tasca e qualcosa la lascia. Penso che mi posiziona di fronte sempre più malattia ma che magari un giorno lui se la porterà via per sempre e non proverà a restituirmela.

      Penso che si è innamorato dei miei bellissimi sogni e siccome l’amore è amore, ha pensato di tenerseli per sé scambiandoli con la GNE, senza lasciarmeli guardare bene per l’ultima volta, senza darmi il tempo per qualche compromesso. «Eh ragazza, i colpi di fulmine non si prevedono», mi ha detto soddisfatto.

      Forse non me lo meritavo, forse neanche me li meritavo, e non lo sapevo. Ne ho fatte collane dei miei sogni così lunghe da inciamparci quando non lo faceva la malattia. Intorno al collo avrei potuto guardarli e sentirli comunque.

      Poi un pomeriggio, tra un chiosco e un cane che pisciava, mi ha urlato che sono una stupida rompi palle, che non capisco niente, che il merito non c’entra, che mi merito quello che voglio e pure le collane sulle quali inciampare perché magari capisco che è il momento di toglierle e farci quello che si fa con i sogni. Che io me li meritavo i miei sogni ma doveva prendersene cura mentre io mi prendevo cura di me, così che potessi imparare il cambio di prospettiva e i miei occhi.

      «Te li restituisco i tuoi sogni bellissimi e capaci, stronza malapensante!»

      Inviato su LETTERE A CORPI INCLUSI, Senza categoria | 0 commenti | Tag disabilità, tempo
    • Muscoli e ossa

      Posted at 11:36 by fedepis, on aprile 29, 2020

      C’era una sedia vicino al muro, era sempre stata lì e quella sera decisi di sedermi per rimanere in penombra. Quando mi rialzai una parte di me rimase seduta a fissarmi con i nostri grandi occhi. Così scoprii che faccia avessi quando mi sembrava di essere su un precipizio senza poter indietreggiare né buttarmi. Quando volevo scappare ma le mie gambe erano inermi. Potevo vedermi respirare come se qualcuno mi comprimesse il petto. Mi ero scissa finalmente, finalmente non sentivo più nulla di quello che Lei provava. Mi inginocchiai e sorridendo le parlai «Io non voglio essere te. Non posso più permettermelo, capisci?»

      Mi alzai e andai a farmi una doccia. L’acqua scendeva giù come se io stessa fossi una cascata, come se fossi la cascata e una ragazza stupida che si butta da una roccia per vedere quanto male faccia l’impatto devastante con l’acqua. Misi del bagnoschiuma sulla spugna e mi insaponai delicatamente, poi lavai anche i miei capelli, dopo lo shampoo passai del balsamo. Girandomi vidi che l’altra me era lì, nel bagno, con gli occhi velati di lacrime e nuda, il suo corpo era il mio ma non come il mio, eppure lo era stato. Sembravamo così stanche. Lei però lo sembrava più di me. «Lo faccio per noi, lo faccio per entrambe.» Le dissi mentre mi sciacquavo un’ultima vota. Mi fissava senza dire niente e io la afferrai dalle braccia, la tirai verso di me, e come se stessimo ballando, io uscii dalla doccia e feci entrare lei lasciandola sotto il getto d’acqua. Indossai l’accappatoio, tirai su il cappuccio. «Mi parlerai mai?» Le chiesi, alzò la testa senza guardarmi, fissava le mattonelle bagnate

      «Se ne dovessi vedere l’utilità» Mi rispose

      «Conoscendoti…»

      «Già! La troverò»

      Mi misi a ridere «Dio come sei divertente. Lo penso davvero, ci divertiremo un sacco io e te»

      Sbuffò e parlò nuovamente «Prendi in giro te stessa, non dimenticarlo»

      «Sei pesante. Prendo in giro te, non me stessa, io non sono più quello che sei tu» Dissi afferrando il pettine nero che era sul lavandino. Solo in quel momento si girò a guardarmi, prese il bagnoschiuma, se lo buttò addosso, prese la spugna e cominciò a sfregarsi così forte che la pelle divenne rossa «Ne sei proprio sicura?»

      Risi nuovamente «Ti manca la spavalderia per dire certe frasi. E quella me la sono presa io, sarebbe stato uno spreco lasciartela, veniva schiacciata dalla tua paura»

      «Nostra!»

      «Tua, tua, tua… basta! Sta’ zitta» Le urlai, puntandole addosso il manico del pettine particolarmente appuntito.

      Uscì dalla doccia mi afferrò la mano che teneva il pettine e si piantò il pettine nel petto. Io non provai dolore ma la sua faccia si contrasse in una smorfia, poi sentii qualcosa colare sul mio petto, lasciai il pettine girandomi verso lo specchio. Spostai l’accappatoio e vidi il sangue colare. Lei si tolse il pettine dal petto e mi parlò «Vedi? Anche se non faccio più parte di te, anche se mi hai allontanato perché ti sembro un peso troppo grande, un dolore troppo grande… anche se il tempo ti sembra scorrere meglio senza di me, anche se credi che cancellando le parti più fragili di te salverai le più forti. Anche se adesso il futuro ti sembra afferrabile e anche l’amore più semplice da gestire senza di me, sarebbe stato il caso di trovare un equilibrio fra le nostre fragilità, fra i nostri dolori e paure perché, vedi? Rimani comunque tu quella che sanguina e io quella che sente la ferita»

      Inviato su LETTERE A CORPI INCLUSI, Te l'ho mai raccontato? | 0 commenti | Tag ansia, paura
    • Il Dissennatore

      Posted at 11:55 by fedepis, on aprile 18, 2020

      Non sono la persona più coraggiosa che io conosca però se mi dovessero chiedere di indicare chi è la persona più paurosa che io conosca, umilmente direi: “Io” ! Lo direi con una risata e non c’è da stupirsi, dico un sacco di cose ridendo. Alla mia migliore amica ho detto di avere una malattia degenerativa ridendo e lei mi ha chiesto che cazzo avessi da ridere. E non lo so che cazzo avessi da ridere ma comunque ho riso.

      Devo dire la verità: i primi anni della malattia sono stati incredibilmente proficui, con il senno di poi. Già da quando iniziai a fare le visite. Ho cominciato a soffrire di ansia e mi mettevo in quarantena da sola però ho avuto il coraggio di cambiare facoltà, ho fatto nuove amicizie, ho iniziato a scrivere su giornali online, ho scritto moltissimo, ho smesso di fingere l’amore. Ma, ecco, io non sentivo niente. La paura c’era indubbiamente ma spuntava solo con l’ansia e con il panico. Quando ho imparato a gestirle, non ne avevo tanta. C’ero ma non c’ero.

      Poi sono diventata la persona più paurosa che io conosca, come se il non ritrovarmi allo specchio, avesse fatto diventare il mondo una giungla e io non sono né Tarzan né Jane. Negli ultimi due anni ogni passo in meno che ho fatto, ogni volta che sono caduta, ogni volta che un movimento del corpo si è dissolto, è stato come ricoprire di sabbia parti di me, belle parti di me: La capacità di capire come fare comunque in un altro modo quello che non potevo più fare nel modo classico. Oppure ridere anche quando non c’era un cazzo da ridere, di vivere il mondo pazientemente, ribellandomi a buche e marciapiedi alti, bagni inagibili. Esprimere le mie idee e scrivere quello che mi andava, tipo le recensioni di film o serie tv anche se non so farlo ma mi piaceva e lo facevo. Scrivere in generale, scrivere lettere, amavo scrivere lettere, lo amo ancora. Forse ho smesso di guardare abbastanza gli altri, di questo non sono tanto sicura. Di me vedevo solo quello che non era più possibile fare.

      C’era un Dissennatore, la bacchetta era caduta troppo lontano, non riuscivo a strisciare per riprenderla e lanciare un Expecto Patronus.

      E stanotte causa difficoltà a dormire e a causa di pensieri troppo vecchi per poter fare bene, ho pensato che prima di iniziare a strisciare ho capito di essere la persona più paurosa che io conosca e che il mio Dissennatore è un pezzo di merda.

      Inviato su GNE GNE GNE!, LETTERE A CORPI INCLUSI | 0 commenti | Tag amore, disabilità, disability, lettere
    • Pensieri sul corpo

      Posted at 12:58 by fedepis, on aprile 6, 2020

      Ho sentito la chiave girare nella serratura della porta, avevo lasciato loro le chiavi perché sono masochista e adesso i miei pensieri si sono chiusi dentro casa, come tutti noi. Dispersi sul mio corpo che è tutto ciò di cui hanno bisogno.

      Giocano su un’altalena che è qui nel mio stomaco e si sfidano a lanciarsi per aria per vedere chi cade in piedi, integro.

      Uno legge un manuale su un leggìo di legno poggiato su una scrivania, proprio in mezzo al mio cuore. Ogni tanto smette di studiare, mi guarda e comincia a ripetere ossessivamente le stesse frasi con un ghigno rabbioso.

      Altri ancora passeggiano sulla mia fronte, sembrano baci ma se mi distraggo diventano spilli e poi di nuovo baci.

      Due giocano al tiro alla fune con la collana che ho al collo per vedere chi potrà dormire sulle mie clavicole. Non so se sono più smemorati o stronzi ma ogni giorno tirano forte, a volte così forte che quasi soffoco finché non si ricordano che ne hanno una a testa di clavicola.

      Uno tira fuori una margherita dalla tasca, sospira, si siede sul mio muscolo pelvico, sospira di nuovo, incrocia le gambe e inizia il suo m’ama o non m’ama.

      Un altro è sulla mia testa che guarda film e ne immagina infiniti usando i miei capelli come un tappeto sul quale sdraiarsi e stare comodo.

      Sulle mie spalle altre due scrivanie ognuna per un pensiero. Uno ha una penna blu in mano e scrive poesie e storie, scrive se stesso senza pensarci troppo. L’altro scrive al computer, non mi sente perché ha la musica a palla, e le sue dita scorrono veloci sui tasti, a volte chiude gli occhi e muove il collo come se le idee provenissero dalla colonna vertebrale.

      Sui miei addominali si giocano partite di pallavolo, non hanno più di 15 anni questi pensieri. Alla fine non si capisce mai chi vince e in realtà non frega niente a nessuno. Poi si torna in classe e due di loro si nascondono in bagno per fumare, uno guarda, l’altro no.

      Molti sono ricercatori d’oro che affondano le mani nelle mie cosce e nei mie polpacci, bicipiti e tricipiti. Cercano qualche pezzo di muscolo ma i loro setacci sono sempre più vuoti e silenziosi.

      Ho pensieri sui miei palmi, tra le linee dell’amore, della vita, tra le mie dita. Si sfiorano tra loro, vestiti e no, presi da amori diversi. C’è chi ride, chi piange, chi sospira e chi si muove muto.

      Sulla mia schiena, le mie scapole diventano la panchina per il più piccolo dei miei pensieri, il più piccolo e il più vecchio. Rimane lì, assomigliandomi più di tutti. Ha i miei occhi, i miei desideri, i miei sensi di colpa, la mia speranza fatta rabbia. Vigila tutti tra un libro e l’altro. Qualche volta prende una fionda, degli orsetti haribo e dei kiwiwini che lancia a destra a sinistra, sotto e sopra. Così addormenta il pensiero nel cuore, sbilancia uno dei giocatori del tiro alla fune, sfama i ricercatori d’oro, salva un po’ di margherite, i pensieri sulla fronte diventano tutti baci, la partita di pallavolo si riempie di risate e quei due che fumano si scambiano un po’ di zucchero. Per ultimo dà da mangiare al pensiero sulla mia testa. Poi si sdraia sui libri tra le mie scapole e torna a leggere.

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    • Promemoria

      Posted at 20:15 by fedepis, on febbraio 15, 2020

      Spesso non ricordo gli impegni, o meglio: non ricordo quelli che prendo con me stessa, perciò inserisco sveglie e promemoria. Una oretta fa stavo per segnare un promemoria e scopro che domani 16 febbraio 2020 il mio cellulare mi avrebbe fatto sapere questo:

      Ricorda: chiedetevi ciò di cui avete bisogno

      So perché questo promemoria io l’abbia scritto al plurale ma non so cosa dovrebbe succedere domani e io non so neanche perché dovrebbe succedere qualcosa e non credo succederà nulla. Domani sarebbe stato solo domani e dubito sia una frase di mia creazione ma difficilmente credo al caso; credo fermamente nelle connessioni, nella bellezza collaterale, credo persino che senza malattia i miei rapporti umani non sarebbero stati quello che sono stati, nel bene e nel male.

      So per certo che oggi è stata una giornata idiota come molte altre in questo lungo periodo. So che la mia testa molto spesso non è un luogo comodo dove passare il tempo né per me né per gli altri che tengo al riparo. Io e i miei pensieri battagliamo ogni giorno. Non tutti ma alcuni sono proprio degli stronzi e banchettano con i loro pensieri contrari a mio discapito. Vengono e vanno via senza interessarsi del fatto che dovrei dormire, studiare, respirare, scrivere. Sanno che a volte le energie vanno centellinate, sanno che devo farlo adesso, perciò sembro una di quelle madri che cedono ai capricci di quei figli che sanno che più urlano e piangono, più ottengono. Ma in fondo credo che chiunque stia leggendo sappia cosa io voglia dire.

      So per certo che non posso ringraziare la persona che mi ha inconsapevolmente obbligato ad aprire l’app, mi prenderebbe per pazza e se fossi più strafottente lo farei. La ringrazierei perché dovrei ricordarmelo di chiedere ciò di cui ho bisogno alle persone che amo, che dovrei chiederlo a me stessa ciò di cui ho bisogno senza cercare disperatamente di essere qualcosa che alla fine dei conti non sono mai. Dovrei chiedermi la strafottenza, dovrei prendere le mie parole, le mie soddisfazioni, le mia sicurezza in me stessa, la consapevolezza di aver fatto cose giuste, a volte anche perfette, che dovrei prendermi il tempo per tutto quello che fa schifo.

      In questi giorni mi gira in testa la frase: sarò quercia! Ed è vero: io sarò quercia, anche se a volte su questo ho mentito ma lo sarò e in fondo un po’ lo sono. Forse è era questo il punto del promemoria, dire: sarò quercia, sono quercia ma posso comunque chiederti di cosa hai bisogno e tu puoi chiederlo a me. E possiamo darci quello di cui abbiamo bisogno anche se sono quercia.

      Non lo so, sta di fatto che il promemoria domani suonerà comunque.

      Inviato su LETTERE A CORPI INCLUSI, Senza categoria | 0 commenti | Tag amore, disabilità, lettere, lgbt
    • Caro Babbo Natale

      Posted at 12:40 by fedepis, on dicembre 19, 2019

      come stai? Lo so che è tardi per una lettera, e so che non te ne scrivo da molti anni. Mi sono decisa tardi, ho deciso tardi cosa chiederti. Ci ho pensato molto, anche se ho scoperto che a volte non penso mai abbastanza a quello a cui gli altri vogliono che io pensi. Quest’anno ho scoperto un sacco di cose, ho scoperto che a volte avere a che fare con la mia malattia è una passeggiata rispetto ad avere a che fare con gli esseri umani. Quindi volevo chiederti un sacchetto con un po’ di misantropia dentro. Lo so, lo so non ti inc… cioè arrabbiare. È una richiesta strana, e certo non mi trasformeresti mai in Ebenezer Scrooge, magari pensi che non faccia parte di me, piuttosto potrei essere il piccolo Tim. Ma tu stai lì al Polo Nord con tua moglie, gli elfi e le renne, a bere cioccolata calda (magari corretta 😏) e noi siamo qui ad avere a che fare gli uni con gli altri, a complicarci la vita così tanto che poi non ne usciamo neanche con la cioccolata calda corretta. Basterebbe un giocattolo di legno, una volta ogni tanto, basterebbe fare finta fosse Natale una volta al mese. Basterebbe non dimenticare che bambini lo siamo stati, e lo siamo ancora tutti, anche se siamo diventati adulti, anche se adesso la paura del buio non si risolve più lasciando semplicemente la porta della camera socchiusa, però magari aiuta. Aiutano le bucce d’arancia sulla stufa, i biscotti allo zenzero, i cartoni animati alla tv, un cappello simile al tuo sulla testa. Aiuta il villaggio di Natale in salotto, aiuta l’amore. Aiuta trovare qualcuno che ci culla anche quando non siamo stati tanto bravi, anche quando abbiamo chiesto un po’ di misantropia come soluzione o consolazione.

      Quindi caro Babbo Natale se con questa richiesta finisco nella lista dei cattivi, mi accontenterò del carbone ma nel caso tu semplicemente non voglia portarmi la misantropia, vedrò di scoprire cosa posso risolvere con una bottiglia liquorosa a tua scelta. Alla cioccolata calda posso pensarci da sola.

      Un bacio

      Federica 🙂

      Inviato su LETTERE A CORPI INCLUSI, Senza categoria | 0 commenti | Tag amore, Babbo Natale, Natale
    • La ragazza sulla panchina

      Posted at 17:57 by fedepis, on novembre 27, 2019

      C’è una ragazza seduta su una panchina di una piazza anonima, avrà 17 anni, non mi vede, è lontana da me ma io non troppo da lei. Si è svegliata prima del solito questa mattina e al bar non c’è ancora neanche una sua compagna di classe. Fuma una merit sperando non la veda nessuno e intanto legge La Repubblica. A volte la guardo, è molto bella e dovrebbe saperlo prima che glielo dica qualcun altro, penso che dovrei dirglielo io così se ne convincerà e tutti gli altri servirebbero il minimo indispensabile. Dovrei dirle che con i suoi capelli lunghissimi ci farà di tutto fino a non volerli più. Che deve impegnarsi di più a scuola perché è comunque tra le migliori e in fondo potrebbe pure essere la migliore. Che non deve essere così timida, che deve mettersi in gioco adesso che potrebbe anche non farlo. Che deve muoversi più che può, correre più che può, giocare a pallavolo volo più che può, andare andare e andare più che può, anche a ballare con Flo.

      Dovrei dirle che un abbandono anche se importante non significa l’abbandono di tutti, che la rabbia ci sta tutta ma deve urlare le vere parole che le grattano la gola e che non deve credere che il silenzio sia la scelta più saggia. Dovrei avvicinarmi abbassare il giornale e dirle che non è scritto da nessuna parte che deve essere come gli altri, che gli uguali non esistono e non esisteranno mai, che è inutile fare finta che il suo amore sia diretto verso chi vogliono gli altri, non può perdere tempo. Che dovrebbe guardare chi ha voglia di guardare perché chi cazzo se ne frega, fare diversamente toglie solo energia. Dovrei farle nomi e cognomi, indicarle la strada.

      Dovrei avvertirla di abbracciare tutti, di memorizzarli quegli abbracci come fossero gli ultimi, perché un po’ lo saranno, di dare tutto l’amore che ha. Di scrivere ogni cosa, di imparare a camminare su fogli di carta e parole. Dovrei avvertirla che camminare a piedi nudi su sogni caduti fa solo un male fottuto. Che non deve avere troppa paura perché tanto se ne possono sempre avere altri di sogni. Che tutto andrà bene anche se tra bassi non calcolati e alti guadagnati.

      La sigaretta è quasi finita, un ultimo tiro, il giornale rimesso nello zaino, in lontananza vede qualcuno, si alza di scatto dalla panchina per raggiungerla, mi passerà accanto. In fondo conosco anche il suo nome ma non sono sicura di saperlo più pronunciare.

      Inviato su GNE GNE GNE!, LETTERE A CORPI INCLUSI | 4 commenti | Tag amore, disabilità, disability
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      La maggior parte delle volte in cui un bicchiere di vetro ricolmo di acqua cade per terra, la colpa è della distrazione. Tornando indietro, in fondo, avremmo potuto evitarlo. Se non l’avessimo posizionato così vicino al bordo del tavolo, oppure se l’avessimo spostato in tempo, prima che il nostro gomito lo colpisse, non sarebbe mai caduto e noi non avremmo rischiato di ferirci camminando su dei pezzi di vetro a piedi scalzi. Sophia lo guarda cadere, il bicchiere. Sente il tonfo, lo vede infrangersi sul pavimento e, nello stesso istante, lei fa la medesima fine.
      Per tutto il romanzo, con il suo strano modo di camminare, Sophia vede esplicarsi al di fuori di sé la malattia genetica che porta dentro. Tutto è una perdita di equilibrio, in tutto c’è odore di arance rosse e succose che scivolano via dalle mani di un giocoliere e si infrangono sui pezzi di vetro. Ma chi è il giocoliere? È davvero chi crede Sophia?
      Attraverso flussi di pensiero, flashback, cambi di persona, decostruzioni e ricostruzioni, Sophia si rende conto che nulla era come credeva, che la ricerca di qualcuno implica sempre la ricerca di se stessi e che, forse, è proprio vero che si comincia dalla fine.
      – RobinEdizioni

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