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Scrittrice su due ruote, quattro quando non impenno
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    • La ragazza sulla panchina

      Posted at 17:57 by fedepis, on novembre 27, 2019

      C’è una ragazza seduta su una panchina di una piazza anonima, avrà 17 anni, non mi vede, è lontana da me ma io non troppo da lei. Si è svegliata prima del solito questa mattina e al bar non c’è ancora neanche una sua compagna di classe. Fuma una merit sperando non la veda nessuno e intanto legge La Repubblica. A volte la guardo, è molto bella e dovrebbe saperlo prima che glielo dica qualcun altro, penso che dovrei dirglielo io così se ne convincerà e tutti gli altri servirebbero il minimo indispensabile. Dovrei dirle che con i suoi capelli lunghissimi ci farà di tutto fino a non volerli più. Che deve impegnarsi di più a scuola perché è comunque tra le migliori e in fondo potrebbe pure essere la migliore. Che non deve essere così timida, che deve mettersi in gioco adesso che potrebbe anche non farlo. Che deve muoversi più che può, correre più che può, giocare a pallavolo volo più che può, andare andare e andare più che può, anche a ballare con Flo.

      Dovrei dirle che un abbandono anche se importante non significa l’abbandono di tutti, che la rabbia ci sta tutta ma deve urlare le vere parole che le grattano la gola e che non deve credere che il silenzio sia la scelta più saggia. Dovrei avvicinarmi abbassare il giornale e dirle che non è scritto da nessuna parte che deve essere come gli altri, che gli uguali non esistono e non esisteranno mai, che è inutile fare finta che il suo amore sia diretto verso chi vogliono gli altri, non può perdere tempo. Che dovrebbe guardare chi ha voglia di guardare perché chi cazzo se ne frega, fare diversamente toglie solo energia. Dovrei farle nomi e cognomi, indicarle la strada.

      Dovrei avvertirla di abbracciare tutti, di memorizzarli quegli abbracci come fossero gli ultimi, perché un po’ lo saranno, di dare tutto l’amore che ha. Di scrivere ogni cosa, di imparare a camminare su fogli di carta e parole. Dovrei avvertirla che camminare a piedi nudi su sogni caduti fa solo un male fottuto. Che non deve avere troppa paura perché tanto se ne possono sempre avere altri di sogni. Che tutto andrà bene anche se tra bassi non calcolati e alti guadagnati.

      La sigaretta è quasi finita, un ultimo tiro, il giornale rimesso nello zaino, in lontananza vede qualcuno, si alza di scatto dalla panchina per raggiungerla, mi passerà accanto. In fondo conosco anche il suo nome ma non sono sicura di saperlo più pronunciare.

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    • A me la pioggia piace

      Posted at 17:28 by fedepis, on novembre 19, 2019

      A Catania piove a dirotto da un paio d’ore e quando piove penso sempre che la pioggia mi piace un sacco. Ero abituata a camminare sotto la pioggia, l’ho fatto fino ai miei 20anni perché non avevo la macchina, mia madre non guida, quindi se dovevo andare da qualche parte dovevo prendere l’autobus che da me significa andare a piedi altrimenti cominci a germogliare alla fermata mentre aspetti.

      Dicevo: a me la pioggia piace, mi piace sentire l’odore di terra bagnata, mi piace vedere l’acqua fluire, in fondo mi piacciono pure le pozzanghere, il ticchettio delle gocce sulle finestre, sui balconi, il rumore delle ruote sull’asfalto bagnato, il fatto che il mondo rallenti. Mi piace stare sotto la pioggia, ma la pioggia è sempre la pioggia e la pioggia e certi tipi di malattie non vanno tanto d’accordo: si scivola di più, mi bagno di più io e chi mi accompagna perché non posso mettermi a correre e se ci sono fulmini magari si scombussola un po’ il servoscala. Però a me la pioggia piace, mi piace pensare all’ultima volta nella quale consapevolmente ho deciso di non aspettare che finisse di piovere. È amo profondamente quel ricordo anche se ero in sedia a rotelle, perché era stata bellissima la cena, era bellissima la persona che mi accompagnava, ed io ero felice… così felice che ci stava la pioggia, come se lei lo sapesse che ci stava, come se sapesse che avevo passato così tanto tempo ad avere paura di cadere per colpa sua, che ci stava. E ci stava anche la signora che guardandomi dall’alto, mentre uscivo dal ristorante, mi ha detto: “ma sta piovendo!” perché così ho potuto dirle: “Non si preoccupi, a me piace la pioggia!”

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    • E lei ride

      Posted at 22:34 by fedepis, on novembre 6, 2019

      Io odio la GNE e lei lo sa. La immagino uguale a me, più magra, con una muscolatura evidentemente allenata. Me la immagino non con i capelli corti come i miei ma lunghi, gli occhi più scuri e grandi dei miei e con un sorriso di merda perennemente stampato in volto. È sempre in piedi, credo lo faccia apposta per innervosirmi. Il suo sguardo è sempre nel mio e non lo distoglie mai, altrimenti non si divertirebbe.

      Io la odio e lo sa e più la odio più sorride, più la odio più scoppia in una risata fragorosa che mi fa impazzire perché somiglia alla mia di risata, allora mi copro la bocca sperando di coprire la sua. Lei non parla mai. Credo che in fondo non potrebbe farlo perché le parole sono tutte mie, almeno quelle le pretendo.

      Sorride ogni volta che il banco ha evidentemente vinto tutto e io ho perso. Quando le chiedo perché ha lei quello che dovrebbe essere mio, perché ci sono vuoti per colpa sua, perché dobbiamo vivere insieme per sempre se non l’ho scelta, perché vederla di fronte a me non sia sufficiente ma devo anche guardarla mentre mi rotola addosso. Perché rotola addosso anche a chi mi si dovrebbe sdraiare accanto. Ride se vede che mi nascondo sotto una tenda per proteggere l’esterno da entrambe e proteggere me da Lei. Sorride e mi fa una linguaccia anche quando guardandola dico: “cazzo, mi poteva andare peggio“

      Lei non parla poi però come le migliori stronze, mi prende la testa tra le mani e mi mostra tutto quello che ho fatto con lei mentre mi rotolava addosso, nonostante i miei muscoli nel suo di corpo. Mi mostra scene di vita “normale”, mi mostra voli in aereo, Londra, tempo che non ho perso, obiettivi raggiunti comunque. E quando io mi scuoto per liberarmi dalla sua presa, Lei stringe ancora di più e mi mostra i volti di chi probabilmente non avrei mai conosciuto senza di Lei, degli amori piccoli che sono stati sostituiti dall’amore grande che mi ha messo di fronte, di chi in fondo non l’ha vista e di chi poi l’ha vista troppo da vicino, di chi c’era prima di Lei e c’era mentre cercavano di capire chi fosse e c’era anche quando mi hanno detto il suo nome. Mi riempie la testa di risate e lacrime, di dolore mischiato a commozione e coraggio. E io le dico che odio non poterla odiare sempre, che odio il pensiero che in qualche motivo strano e paradossale, che io neanche capisco, dovrei esserle grata e Lei ride.

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    • Le mie mani sono stronze

      Posted at 21:28 by fedepis, on settembre 8, 2019

      Le mie mani sono stronze. Spesso le considero stronze: dipende da che lato le guardo, dalla posizione che hanno assunto senza che io me ne accorgessi. Dipende se quel giorno mi fanno male oppure no, se quel giorno mi permettono di scrivere oppure no, studiare oppure no. Alcune volte mi deludono perché non seguono il mio pensiero, perché l’azione che io ho perfettamente nella mente viene tradita da loro mentre la mettono in pratica.

      Io non ne avevo alcuna coscienza 3 – 4 anni fa: ci vuole un certo controllo per poter fare una carezza alla persona che si ama, per essere delicati. Per accarezzare la schiena soltanto con la punta delle dita, per poggiare una mano sul viso e dire : “andrà tutto bene!” Ci vuole il controllo delle dita, del palmo e dorso della mano, del polso e dell’avambraccio, della spalla. Pensate quando la carezza non basta per tranquillizzare quella persona: pensate a quanto controllo e forza comporti prenderle il viso tra le mani e baciarne le labbra.

      Le mie mani sono stronze perché sembra dicano che posso e invece poi non posso, che con loro così poco funzionanti io non sia più credibile, perché d’improvviso hanno reso vitale non dimenticare il contatto con un viso, delle labbra, un collo, delle braccia e una schiena .

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    • La leggerezza non si compra

      Posted at 9:42 by fedepis, on agosto 28, 2019

      Quando mi è stata diagnosticata la malattia ho dovuto prendere consapevolezza di una parte di me che sconoscevo. È proprio il mio dna fatto male, fatto così a cazzo. Piano piano ho iniziato a pensare che la malattia fosse come il colore dei capelli: “Fede sei malata, allo stesso modo hai i capelli castano scuro, è una parte di te”. I capelli cambiano ma puoi colorarli, e se diventano bianchi o grigi di solito si scopre che ci donano anche così. La malattia peggiora ma non mi dona anche così.
      Allora ho capito che la malattia non è come i capelli, per me la mia malattia, è come i miei occhi. È i miei occhi, assolutamente quelli per sempre.

      Dal momento della diagnosi in poi, tutto quello che ho guardato, che ho letto, le mie convinzioni, la mia testardaggine, la rabbia, il dolore, la gioia, le domande, le scelte, i corpi che ho abbracciato, i baci che ho dato, l’amore che ho dato e ricevuto, niente è stato più come prima. Non vedevo più come prima. Il mio riflesso non è più quello di prima. Quando mi specchio la malattia la ritrovo lì che affoga nella pupilla, senza morire.

      Qualche mese fa ho tagliato i capelli – dopo averli lasciati allungare – perché i miei occhi non mi riconoscevano più.

      Nel mio libro ho scritto

      “La leggerezza non si compra, pensi. Forse si conquista o si crea, si rincorre, si ruba. La leggerezza nel vivere è salvifica, è guaritrice, ma deve essere profonda. Una leggerezza matura, coscienziosa, che possa azzerare pentimenti e sensi di colpa successivi alla sua messa in pratica. Uno strumento, allora, sarà uno strumento, un optional, un bastone da passeggio.”

      Ci credevo, ci credo ancora e ci crede Sophia, la protagonista ma quando l’ho scritto non sapevo che avrei dovuto aggiungere che la leggerezza adesso, per me, passa dagli occhi. La paura passa dagli occhi e i miei occhi hanno palpebre che senza avvertire, a volte, si chiudono

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    • Lettera alla mia pazienza

      Posted at 11:37 by fedepis, on marzo 19, 2019

      Non ricordo quando ci siamo conosciute, in quale anfratto del mio passato. Sei l’unica parte di me con la quale non ho mai litigato, della quale mi sono sempre vantata. Ti porto sul petto come una medaglia al valore, come cicatrice. Il cielo mi guarda, mi insulta perché io distolgo lo sguardo per trovarti nella passeggiata che non farò, nel mar mediterraneo che vedo dalle vetrate della cucina e che in 30 anni non è mai stato brutto. Devo sempre trovarti da qualche parte, più di una volta al giorno, dentro un bicchiere di plastica riempito il giusto per poterlo reggere. Devo trovarti tra le mattonelle rosa del bagno, fredde sotto la mia guancia. Devo trovarti tra il vittimismo dilagante e il mio di vittimismo che vorrebbe urlare per riprendersi la sua rivincita. Nelle mie dita che battono sulla tastiera troppo lentamente e ancora non mi abituo. Devo trovarti nella paura perenne, nel dubbio, nei miei slanci di coraggio che si spengono, nei sensi di colpa, nelle parole che muoiono in gola soffocate dalla rabbia che devo monitorare e gestire perché sono disabile e non posso arrabbiarmi come e quando voglio, perché da sola muoio di fame e di sete, me la faccio addosso. Devo trovarti nella porta che non sbatterò, nelle scale che non scenderò di corsa per andarmi a sfogare.

      Tu non sei un concetto astratto, sei dea che si fa corpo, che esiste fin quando io ti permetterò di farlo. E come in tutti i rapporti divino-umano ci alimentiamo a vicenda. Mi usi come fossi la tua puttana, mi consumi come fossi quel golfino che dopo anni ti sta ancora a pennello. Devo credere in te anche quando non sembri nei paraggi. Ci rincorriamo senza rancore perché non ho scelta, perché tu fuggi, egli fugge, voi fuggite, essi fuggono ma io, noi, non fuggiamo mai dall’odio che a volte ho la sensazione di provare verso tutto quello che un errore genetico mi ha imposto. Probabilmente tu non sei infinita per chi può permettersi di non trovare da qualche parte ancora un po’ di te.

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    • Scontri di Definizioni

      Posted at 14:32 by fedepis, on gennaio 18, 2019

      Passo dal desiderio di volermi definire all’avere il terrore verso ogni tipo di definizione. Probabilmente perché il mondo è un po’ bastardo e definirsi significa andare incontro a scontri di definizioni.

      Io ad un certo punto mi sono ritrovata con una definizione addosso come l’estate di Jovanotti. Una definizione che si materializza con il postino che suona al citofono portandoti il certificato di invalidità. Tutto quello che è successo prima dell’arrivo del postino sconvolge ma non definisce. Tutto quello che è successo prima si concretizza con l’INPS.

      Io ad un certo punto sono diventata una portatrice di handicap, handicappata, una disabile, una persona disabile oppure con disabilità, una invalida al 60%, 80%,100%. Tendenzialmente non mi indigno se vengo definita soltanto “disabile” . Non mi sento sminuita, ovviamente a meno che non mi rendessi conto di un filo di disprezzo nel tono di chi mi definisce semplicemente disabile. Il fatto che io non mi indigni in ogni circostanza mi fa sentire un po’ in colpa verso chi invece si indigna.

      Io mi indigno di più, mi incazzo proprio quando con quel “persona con disabilità” intendono un essere umano chiuso in casa, senza vita sociale, affettiva e sessuale, che passa il tempo a compiangersi.

      Sono questi per me gli scontri di definizioni. Chi se ne frega se “persona” non precede “disabile”? Se poi si infilano all’interno di una parola una serie infinita di variabili, di 2+2, di ragionamenti illogici, ignoranti, è peggio questo. È peggio lo stupore sul viso di chi scopre che sono laureata, che scrivo, viaggio, non mi annoio, ho una vita sentimentale con tutto quello che ne consegue, pure le rotture di scatole. È peggio sentirsi dire, da una coppia di sconosciuti, durante una passeggiata, che la persona che è con me appena si innamorerà non avrà più tempo per “portarmi fuori” e sono stata zitta, ho avuto paura di dire “veramente è la mia ragazza, quindi se si innamora di qualcuno sono io che non la porto più fuori”, avrebbe significato vedere uno stupore alla decima potenza.

      A volte credo che ci arrovelliamo nell’appiopparci delle definizioni per sapere cosa rispondere agli altri.

      Perciò preferisco essere considerata Federica la disabile che fa cose, anche a caso a volte, ma cose.

      Inviato su GNE GNE GNE! | 0 commenti | Tag disabiità, disablity, lgbt
    • Cara Fede,

      Posted at 13:06 by fedepis, on gennaio 9, 2019

      Sei dietro la mia sedia e le tue mani sono a un passo dalle mie spalle, sospese in attesa del mio consenso al tuo tocco. Non ho mai scritto una lettera a qualcuno che si trovasse così vicino. 

      Ho imparato che ammettere di aver sbagliato è meno stancante del trovare giustificazioni a ogni errore e lo ammetto: non ti rendo la vita facile, in questi trent’anni non ti ho mai dato tregua. La colpa non è mai stata la tua, non sei stata tu a farmi diventare così, ti ho trasformato nel mio carnefice perché io sono stata il tuo. In realtà sono stata io a farti del male, a torturarti, sfinirti per potermi sentire in colpa, ti ho stuzzicato così da poter dire che sono la povera vittima di una parte di me. 

      Li ricordo i giorni in cui riflessa nello specchio ti ho insultata per il futuro che credevo mi stessi promettendo, per i sogni che come pizzini mettevi in tasca senza neanche avvertirmi, per gli errori che inevitabilmente commettevo e che non riuscivo a perdonarmi. Ti ho fatto del male a ogni risata in modo che potessimo non goderne, illudendoti che non ce la meritassimo. Ti ho portato in letti scelti con poca attenzione e ho creduto che quella sensazione di star per sprofondare fosse colpa tua e invece no, era colpa mia ma ci voleva troppo coraggio per poggiare la testa sul cuscino giusto con la persona giusta. Mi sono rifiutata di ascoltarti quando coprirmi era il modo migliore per sparire, per non sentirmi all’altezza, alla tua altezza. Ho tagliato i capelli per non riconoscerti più. Ti ho dato la colpa per la mia paura che la bellezza delle cose finisca con uno schiocco di dita. Ti ho dato la colpa per tutto quell’amore che non comprendevo, per l’amore che finiva, che non respiravo più. Io non respiravo più e ti davo la colpa. 

      Mi sono illusa che tu non fossi più parte di me, credevo di averti perso dentro la carpetta con i risultati delle visite mediche, nell’ansia sotto pelle, nel tempo che lanciato come una palla pazza mi sfuggiva, ma io lo so che invece sei la parte migliore di me. Sei tutti i miei traguardi raggiunti, sei il coraggio che ci vuole per prendere una via diversa, sei il perdono di cui non sapevo di essere capace, le mie abitudini. Sei i cartoni a Natale, Harry Potter e la musica ad alto volume, sei le piccolissime barchette di carta che regalavo a chiunque, le lettere che scrivevo da ragazzina rigorosamente con la penna blu, sei le facce buffe che io e A. ci scambiamo per ricordarci che siamo state bambine per troppo poco tempo ma possiamo esserlo ancora. Sei i racconti, le poesie, i romanzi, i baci sul naso. 

      Ti chiedo scusa perché ho fatto finta di non saperlo ma lo so! Tu sei la mia storia, sei il mio “nonostante tutto”.

                                                    Tua per sempre, 

      Federica

      Inviato su GNE GNE GNE! | 4 commenti | Tag disabilità, disability
    • Perché ridi?

      Posted at 9:54 by fedepis, on gennaio 4, 2019

      «Non potrete giocare a pallone ma certo è una delle malattie meno gravi» 

      Non mi guardava neanche in faccia, non mi sembrava di esserci oltre i suoi occhiali da vista con le lenti spesse, oltre il camice che sembrava due taglie più grandi. Non ho mai voluto giocare a pallone, ma certo mi sarei aspettata di poter continuare a camminare. Mi sembra ancora di sentire la sedia grigio chiaro di plastica ruvida sotto il sedere, i rumori ovattati dell’ospedale come se fosse tutto quel bianco delle pareti e delle porte ad attutirli, come se l’aria condizionata li comprimesse dentro il mio cervello. Non so se l’ho salutato, potrei non averlo fatto ma mia madre mi ha insegnato troppa educazione per potermi arrabbiare con il dottore e sfogarmi con lui per quello che ci aveva comunicato. Quindi probabilmente l’ho salutato cordialmente, avrò anche riso e poi sono lì nel corridoio e cammino a grandi falcate, senza inciampare, sbilanciarmi, come fossi un’amazzone senza cavallo. Sono lì e non sono lì, davanti tutti, la capo fila di un gruppo di umani diventati degenerativi, anche i sani. Lascio indietro mia sorella gemella che su di me vede il suo futuro perché la mia malattia è più sfrontata, invece la sua copia più timida. Noi due condivideremo per sempre lo stesso corollario genetico, quindi il bel sorriso, i grandi occhi castano scuro, la statura alta e l’errore che distrugge i nostri muscoli. Condivideremo per sempre la miopatia GNE che in quel GNE sembra nascondere uno sberleffo. 

      C’è un vuoto temporale: non ricordo di essere uscita dall’ospedale, di essere salita in auto, non ricordo il tragitto Messina-Catania. Ricordo me dentro la mia macchina con la mia migliore amica che mi chiede perché cazzo rido e non so che giorno sia. Forse  il giorno della diagnosi o quello dopo. 

      «Fede perché cazzo ridi?» 

      “Perché sembro qui ma non sono qui, perché non ho idea di che fare, rido perché non c’è niente da ridere, ci sarebbe da piangere ma non riesco, mi poteva andare peggio e mi sentirei in colpa se mi lamentassi. Rido perché parlo con te anche se si è aperta una voragine sotto di me. Rido perché non sto ancora scivolando giù, perché dovrei disperarmi e crollare, mi merito di crollare ma il mio orgoglio mi farà implodere. Ti prego aiutami ad esplodere, non capisco perché non annaspo, perché il mio corpo lo vedo ancora anche se ho paura”. Quel giorno, qualsiasi giorno fosse, io non ho detto nulla di tutto ciò, ho solo continuato a sorridere.

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      La maggior parte delle volte in cui un bicchiere di vetro ricolmo di acqua cade per terra, la colpa è della distrazione. Tornando indietro, in fondo, avremmo potuto evitarlo. Se non l’avessimo posizionato così vicino al bordo del tavolo, oppure se l’avessimo spostato in tempo, prima che il nostro gomito lo colpisse, non sarebbe mai caduto e noi non avremmo rischiato di ferirci camminando su dei pezzi di vetro a piedi scalzi. Sophia lo guarda cadere, il bicchiere. Sente il tonfo, lo vede infrangersi sul pavimento e, nello stesso istante, lei fa la medesima fine.
      Per tutto il romanzo, con il suo strano modo di camminare, Sophia vede esplicarsi al di fuori di sé la malattia genetica che porta dentro. Tutto è una perdita di equilibrio, in tutto c’è odore di arance rosse e succose che scivolano via dalle mani di un giocoliere e si infrangono sui pezzi di vetro. Ma chi è il giocoliere? È davvero chi crede Sophia?
      Attraverso flussi di pensiero, flashback, cambi di persona, decostruzioni e ricostruzioni, Sophia si rende conto che nulla era come credeva, che la ricerca di qualcuno implica sempre la ricerca di se stessi e che, forse, è proprio vero che si comincia dalla fine.
      – RobinEdizioni

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