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Scrittrice su due ruote, quattro quando non impenno
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    • L’arte di essere nessuno

      Posted at 21:55 by fedepis, on dicembre 8, 2019

      “Lo vedi, se guardi ovunque, che hai lasciato quel dolore scavarti dentro. La sua anima sembrava divorarti dall’interno, così non saresti né esplosa né implosa, così saresti finita e basta. Il tuo corpo sarebbe stato salvaguardato, l’evidenza protetta: maschera in volto, schiena dritta. Non te ne sei neanche accorta, e le hai amate così tanto, quelle labbra, così tanto tutta lei, così tanto, così nulla, così niente. Morta come un nessuno davanti tutto quello che era stata. Tu, tutto quello che era stata. Tu, tutto tranne la motivazione per rimanere, tutto tranne il resto. Piangi e ti viene da vomitare e da urlare, è ritornata la sensazione di quel bacio e lei che forse quel bacio te l’ha restituito poco prima di morire, lei che sembrava aver capito tutto e continuava e non smetteva, lei non smetteva mai.
      Adesso ti sei fermata e ti ricordi che sei brutta quando piangi, mangi lacrime e la saliva cola. Hai smesso di ingoiare, di respirare, di parlare. Abbassi il sedile e cominci a ridere, come una pazza, lacrime, saliva e risate, piangi e ridi, ridi, Sophia, ma che avrai da ridere?” L’arte di essere nessuno

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    • La ragazza sulla panchina

      Posted at 17:57 by fedepis, on novembre 27, 2019

      C’è una ragazza seduta su una panchina di una piazza anonima, avrà 17 anni, non mi vede, è lontana da me ma io non troppo da lei. Si è svegliata prima del solito questa mattina e al bar non c’è ancora neanche una sua compagna di classe. Fuma una merit sperando non la veda nessuno e intanto legge La Repubblica. A volte la guardo, è molto bella e dovrebbe saperlo prima che glielo dica qualcun altro, penso che dovrei dirglielo io così se ne convincerà e tutti gli altri servirebbero il minimo indispensabile. Dovrei dirle che con i suoi capelli lunghissimi ci farà di tutto fino a non volerli più. Che deve impegnarsi di più a scuola perché è comunque tra le migliori e in fondo potrebbe pure essere la migliore. Che non deve essere così timida, che deve mettersi in gioco adesso che potrebbe anche non farlo. Che deve muoversi più che può, correre più che può, giocare a pallavolo volo più che può, andare andare e andare più che può, anche a ballare con Flo.

      Dovrei dirle che un abbandono anche se importante non significa l’abbandono di tutti, che la rabbia ci sta tutta ma deve urlare le vere parole che le grattano la gola e che non deve credere che il silenzio sia la scelta più saggia. Dovrei avvicinarmi abbassare il giornale e dirle che non è scritto da nessuna parte che deve essere come gli altri, che gli uguali non esistono e non esisteranno mai, che è inutile fare finta che il suo amore sia diretto verso chi vogliono gli altri, non può perdere tempo. Che dovrebbe guardare chi ha voglia di guardare perché chi cazzo se ne frega, fare diversamente toglie solo energia. Dovrei farle nomi e cognomi, indicarle la strada.

      Dovrei avvertirla di abbracciare tutti, di memorizzarli quegli abbracci come fossero gli ultimi, perché un po’ lo saranno, di dare tutto l’amore che ha. Di scrivere ogni cosa, di imparare a camminare su fogli di carta e parole. Dovrei avvertirla che camminare a piedi nudi su sogni caduti fa solo un male fottuto. Che non deve avere troppa paura perché tanto se ne possono sempre avere altri di sogni. Che tutto andrà bene anche se tra bassi non calcolati e alti guadagnati.

      La sigaretta è quasi finita, un ultimo tiro, il giornale rimesso nello zaino, in lontananza vede qualcuno, si alza di scatto dalla panchina per raggiungerla, mi passerà accanto. In fondo conosco anche il suo nome ma non sono sicura di saperlo più pronunciare.

      Inviato su GNE GNE GNE!, LETTERE A CORPI INCLUSI | 4 commenti | Tag amore, disabilità, disability
    • A me la pioggia piace

      Posted at 17:28 by fedepis, on novembre 19, 2019

      A Catania piove a dirotto da un paio d’ore e quando piove penso sempre che la pioggia mi piace un sacco. Ero abituata a camminare sotto la pioggia, l’ho fatto fino ai miei 20anni perché non avevo la macchina, mia madre non guida, quindi se dovevo andare da qualche parte dovevo prendere l’autobus che da me significa andare a piedi altrimenti cominci a germogliare alla fermata mentre aspetti.

      Dicevo: a me la pioggia piace, mi piace sentire l’odore di terra bagnata, mi piace vedere l’acqua fluire, in fondo mi piacciono pure le pozzanghere, il ticchettio delle gocce sulle finestre, sui balconi, il rumore delle ruote sull’asfalto bagnato, il fatto che il mondo rallenti. Mi piace stare sotto la pioggia, ma la pioggia è sempre la pioggia e la pioggia e certi tipi di malattie non vanno tanto d’accordo: si scivola di più, mi bagno di più io e chi mi accompagna perché non posso mettermi a correre e se ci sono fulmini magari si scombussola un po’ il servoscala. Però a me la pioggia piace, mi piace pensare all’ultima volta nella quale consapevolmente ho deciso di non aspettare che finisse di piovere. È amo profondamente quel ricordo anche se ero in sedia a rotelle, perché era stata bellissima la cena, era bellissima la persona che mi accompagnava, ed io ero felice… così felice che ci stava la pioggia, come se lei lo sapesse che ci stava, come se sapesse che avevo passato così tanto tempo ad avere paura di cadere per colpa sua, che ci stava. E ci stava anche la signora che guardandomi dall’alto, mentre uscivo dal ristorante, mi ha detto: “ma sta piovendo!” perché così ho potuto dirle: “Non si preoccupi, a me piace la pioggia!”

      Inviato su GNE GNE GNE!, Senza categoria | 1 Commento | Tag amore, disabilità, lettere
    • E lei ride

      Posted at 22:34 by fedepis, on novembre 6, 2019

      Io odio la GNE e lei lo sa. La immagino uguale a me, più magra, con una muscolatura evidentemente allenata. Me la immagino non con i capelli corti come i miei ma lunghi, gli occhi più scuri e grandi dei miei e con un sorriso di merda perennemente stampato in volto. È sempre in piedi, credo lo faccia apposta per innervosirmi. Il suo sguardo è sempre nel mio e non lo distoglie mai, altrimenti non si divertirebbe.

      Io la odio e lo sa e più la odio più sorride, più la odio più scoppia in una risata fragorosa che mi fa impazzire perché somiglia alla mia di risata, allora mi copro la bocca sperando di coprire la sua. Lei non parla mai. Credo che in fondo non potrebbe farlo perché le parole sono tutte mie, almeno quelle le pretendo.

      Sorride ogni volta che il banco ha evidentemente vinto tutto e io ho perso. Quando le chiedo perché ha lei quello che dovrebbe essere mio, perché ci sono vuoti per colpa sua, perché dobbiamo vivere insieme per sempre se non l’ho scelta, perché vederla di fronte a me non sia sufficiente ma devo anche guardarla mentre mi rotola addosso. Perché rotola addosso anche a chi mi si dovrebbe sdraiare accanto. Ride se vede che mi nascondo sotto una tenda per proteggere l’esterno da entrambe e proteggere me da Lei. Sorride e mi fa una linguaccia anche quando guardandola dico: “cazzo, mi poteva andare peggio“

      Lei non parla poi però come le migliori stronze, mi prende la testa tra le mani e mi mostra tutto quello che ho fatto con lei mentre mi rotolava addosso, nonostante i miei muscoli nel suo di corpo. Mi mostra scene di vita “normale”, mi mostra voli in aereo, Londra, tempo che non ho perso, obiettivi raggiunti comunque. E quando io mi scuoto per liberarmi dalla sua presa, Lei stringe ancora di più e mi mostra i volti di chi probabilmente non avrei mai conosciuto senza di Lei, degli amori piccoli che sono stati sostituiti dall’amore grande che mi ha messo di fronte, di chi in fondo non l’ha vista e di chi poi l’ha vista troppo da vicino, di chi c’era prima di Lei e c’era mentre cercavano di capire chi fosse e c’era anche quando mi hanno detto il suo nome. Mi riempie la testa di risate e lacrime, di dolore mischiato a commozione e coraggio. E io le dico che odio non poterla odiare sempre, che odio il pensiero che in qualche motivo strano e paradossale, che io neanche capisco, dovrei esserle grata e Lei ride.

      Inviato su GNE GNE GNE!, Senza categoria | 1 Commento | Tag amore, disabilità, disability
    • La consistenza del mio respiro

      Posted at 17:15 by fedepis, on ottobre 31, 2019

      «Che cerchi?» Le chiese una donna che passeggiava attraversando il parco per andare a lavoro e che si fermò a fissarla.

      La ragazza si girò, aveva le guance sporche di terra, i capelli arruffati, gli occhi castano scuro gonfi e arruffati anche quelli «Cosa?»

      «Che cerchi? È un mese che passo da questo parco quasi ogni mattina per andare a lavoro e sei sempre qui, a volte mi siedo sulla panchina lì in fondo bevendo un caffè e ti guardo mentre cerchi qualcosa. Cosa cerchi?»

      La ragazza si passò il dorso della mano sulla fronte sudata «Ha un fazzoletto?»

      «Sì certo!» lo estrasse dalla ventiquattr’ore che teneva in mano e lo passò alla ragazza che si asciugò la fronte e il collo e ricominciò a cercare «Potrei aiutarti se mi dicessi cosa cerchi»

      La ragazza si girò di scatto con rabbia «Conosce il mio respiro?» la signora non rispose «Sa che consistenza abbia? Ho ritrovato tutto. Ho ritrovato le lacrime, il verde, il blu, un capello riccio dentro una scatola di legno dove prima ci stava una bottiglia di vino bianco ma che ora contiene orecchini.» la ragazza si passò la mano sul viso cercando di cambiare espressione, tono di voce, per vedere se giocare a bubu settete fosse utile «Ho ritrovato le parole, tutte le parole che vuole e anche le metafore sulla mancanza, il vuoto, l’arto fantasma. Ho persino ritrovato il mio cuore sotto una maglietta che non pensavo mi sarebbe mai stata comoda e l’ho lasciato dov’è per non sciuparlo che se proprio devo decido io con chi. Ho ritrovato le notti insonni, il rumore dei passi sulle scale e di uno sportello della macchina chiuso sempre troppo forte. Ho ritrovato la nostalgia per tutto ciò che il mio inconscio mi permette di ricordare. E poi la paura, quella l’ho incorniciata insieme ad un mandala per non dimenticarmi di spaventarla tutte le volte che lei spaventa me. Ma signora io cerco il mio respiro. Non ricordo dove l’ho lasciato, a volte lo sogno. Sogno che suona al citofono e che mi dica che era solo uscito a fare un giro. Che posso rimettermi il cuore in petto e che ho fatto bene ad incorniciare la paura perché con il respiro si combatte meglio e sappiamo cosa combattere e per cosa combattere. Ma poi non c’è e il petto si blocca a metà strada tra l’inspirare e l’espirare. Signora la conosce la consistenza del mio respiro?»

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    • Bubu Settete

      Posted at 16:37 by fedepis, on ottobre 22, 2019

      Non c’è niente sotto le mani, c’è solo il mio volto sotto le mani

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    • Il giorno preciso, per intero

      Posted at 22:35 by fedepis, on ottobre 17, 2019

      Il giorno preciso non lo ricordo, il giorno nel quale ho messo il piede per terra e il freddo del pavimento mi ha risvegliato dal torpore. Il giorno preciso, per intero, nel quale è cambiato tutto e poi io non ero più io, e voi e gli altri, non eravate più voi e gli altri. Il giorno preciso, per intero, nel quale ho affondato il viso dentro l’acqua del mare e ho avuto il coraggio di aprire gli occhi. Il primo giorno più brutto e il primo giorno più bello. Il giorno preciso, per intero, nel quale il corpo l’ho avuto per intero e il giorno preciso, per intero, nel quale l’amore l’ho avuto per intero e poi più nulla. E poi il giorno che sono andata via per finta, per tornare e poi tornare e tornare ancora su quel punto dove il dente duole, dove fa male il mio di dente e il dente di qualcun altro come se avessimo una bocca sola. Il primo giorno nel quale ho cambiato articolo. Il giorno nel quale in due abbiamo avuto una bocca sola. Il primo giorno, per intero, nel quale sono andata via, per Intero.

      Il primo giorno della prima volta nel quale ho detto: “Grazie” “Prego” “Per favore può dirmi, per favore puoi darmi, puoi spiegarmi. Puoi stare zitta, puoi stare zitto” “ti voglio bene” “non mi interessa” “Ora decido io” “ora comando io” “l’ho scritto io” “vaffanculo” “andate tutti a fanculo” “che giorno è oggi?” “Oggi piove?” “Finalmente piove” “Quando smette di piovere?” “Ti amo, tu mi ami? Sì, no! Ma io ti amo?” “Mi aiuti?” “È mia sorella, Mamma, Papà”

      Inviato su Senza categoria | 2 commenti
    • Nella nostra pelle

      Posted at 22:57 by fedepis, on ottobre 1, 2019

      Fece dei tagli precisi e verticali ai lati del proprio corpo. Scelse di farlo di fronte lo specchio del salotto, posizionato accanto al divano di tessuto blu coperto da un lenzuolo arancione. Quel lenzuolo era un regalo di suo padre che camuffava il regalo di sua madre: il divano blu. Non erano mai andati troppo d’accordo quei due. Si erano amati tanto, più di quanto quel divano lasciasse immaginare, in fondo il blu e l’arancione potrebbero avere anche punti in comune, dipende da come li si guarda ma i suoi genitori non si guardavano dalla prospettiva giusta. Quando litigavano, sua madre, tirava via l’arancione dal blu con rabbia, lo appallottolava e lasciava quella palla di cotone sul tessuto ricamato del divano. Lui allora svuotava sul divano una intera bottiglia d’acqua. In questo modo, Lisa, capiva che i suoi genitori avevano litigato: ritrovandosi il sedere bagnato e accanto a lei una palla di tessuto arancione.

      Lisa mentre tagliava non era sola in casa, sentiva il criceto correre sulla ruota, un gatto appostarsi in giardino, e il rubinetto che perdeva in cucina. Sentiva anche i passi di qualcuno in camera da letto, qualcuno a cui non importava né del blu né dell’arancione. E quel qualcuno ero io.

      Mentre tagliava, il sangue rosso colava giù denso e in maniera regolare. Lisa non piangeva e non mosse ciglio quando mi vide riflessa, nuda come lei, così uguali da far male. «Che stai facendo?» Le chiesi.

      «Cambio pelle!» Rispose come fosse normale.

      «Io non te l’ho chiesto» Le dissi.

      «Lo so, lo so»

      Lei pensava che sarei scappata via, invece mi avvicinai, l’abbracciai e sentii il suo sangue sul mio avambraccio sinistro, percepii il taglio e provai un dolore non mio «Ti faccio male se sto così per un po’?»

      «Sì, non molto ma sì»

      Lisa pensava sempre che il male è inevitabile, una volta mi disse: “È inevitabile!” mi diede un bacio “ce ne faremo così tanto, è inevitabile!” Mi diede un altro bacio “E quando succederà, se vorremo, cercheremo di levarcelo da dosso tutto quel male” Mi fidai, per questo l’abbracciai di fronte lo specchio: per vedere da quanto male potessi liberarla.

      Tenevo la mano destra sul suo ventre e le baciai piano una spalla e poi l’altra. Stava quasi per piangere al contatto della mia pelle così ben costruita, con la sua di pelle che credeva piena di errori, fatta di niente, vecchia già da giovane, un risultato disordinato di casualità. Smettila, mi disse, spalancò gli occhi e poggiò la punta della lama sulla mia mano che tenevo sul suo ventre. «Devo diventare… »

      «Qualcosa di diverso da quello che sei adesso? Io non voglio qualcosa di diverso» Le dissi

      «Gli altri sì e magari andrà meglio anche a te. Lasciami finire» Lisa aveva un sorriso nervoso sul volto

      «No! Mi piace toccarla, mi piace il sapore, e affondarci dentro. Non puoi levarmi l’unica cosa in cui affonderei, in cui spero di affondare. Cosa ne farai?»

      «La piegherò come si deve, e la metterò dentro il cassetto, me ne prenderò cura.» Mise la sua mano sulla mia e si sciolse dal mio abbraccio, si girò e puntò la lama sul mio cuore. La guardai impaurita «Non fermarmi» Ricominciò «è la cosa giusta, così potrò scegliere un nome più accettato, un sesso ben visto, un’immagine ordinata»

      «E se tutto dovesse cambiare anche per te?» Chiesi. «Potresti non sentire più il mio profumo come fai adesso, potresti vedermi diversa.»

      «Stai zitta!» Mi spinse via con una violenza contenuta, avrebbe potuto fare di peggio, tornò allo specchio e riprese a tagliare, incideva con più velocità. La guardai percorrere in verticale il proprio corpo, tagliarsi con attenzione, macchiarsi di sangue, intravedevo i muscoli ed io mi sentii un mostro abbandonato e colpevole. «Aspetta!» La pregai «Ricucio tutto, ricucio ogni cosa, poi andranno via anche le cicatrici e se resteranno, le bacerò comunque. Mi piaceranno anche quelle, vorrò anche quelle. Amo già quelle che hai. Buttiamo via gli altri, buttiamo via il blu e l’arancione, ricucio tutto» intanto Lisa stava quasi finendo, il disordine sarebbe sparito e l’ordine tornato, il suo senso di inadeguatezza gli altri non l’avrebbero più percepito perché, ne era convinta, sarebbe andato via insieme alla sua pelle.

      «Sono stanca, finisci tu» Mi ordinò all’improvviso, nervosamente porgendomi, tremante, il coltello dalla parte della lama

      «Cosa?»

      «Sono stanca, mi fanno male le braccia e le mani, mi fa male tutto. Finisci tu. Non lo capisci che lo faccio anche per te? Lo so che provi dolore, lo sento, tutte le notti sento che provi dolore per la pelle che ho»

      «No, non è vero» Le sorrisi, anche se non sapevo perché lo stessi facendo e mi avvicinai «Non finirò niente, ricucio tutto, ogni cosa, tutto»

      «Fammi vedere cosa c’è sotto la mia pelle, fammi vedere se posso fare qualcosa.» Lisa non smise di piangere e mise il coltello insanguinato tra le mie mani. Poi osservai il lenzuolo arancione, mi avvicinai, lo afferrai e lo stesi per terra, dicendo a Lisa di sdraiarsi. «Lo faccio ma questo disordine è anche disordine mio. La tua pelle vorrei solo lavarla, passare un panno bagnato sulla ferita, su quel lungo taglio, disinfettare tutto, disinfettare te. Farò un solo taglio, fattelo bastare!» Mi misi sopra di lei a cavalcioni. «Quale parte?» Le chiesi

      «Taglia da parte a parte, in orizzontale, da un braccio all’altro, all’altezza delle clavicole» Spalancai gli occhi «È la mia parte migliore» Continuò «La parte che ti piace di più, taglia!»

      Io avevo soltanto voglia di vomitare, la guardai. «La pelle cambia se deve cambiare, non se la si strappa da dosso» Dissi sulle labbra di Lisa, forse anche per me quella sarebbe stata una rinascita, perché un po’ la pelle di Lisa era anche pelle mia. L’ho deciso appena ho ricevuto il morso sul naso che Lisa mi diede un giorno per scherzo. Dopo quel morso ho pensato che fine o non fine, amore o non amore, quella sarebbe stata anche pelle mia per tutto il tempo che era destino lo fosse. Ma il destino esiste? Oppure davvero è tutto soltanto frutto di una casualità disordinata? Non lo so, non mi diedi mai una risposta, ma l’idea del destino mi piace di più e quella pelle era un po’ mia.

      Presi un grande respiro e nuovamente le dissi che per me andava bene come era.

      «Lo dici soltanto perché tu non riesci a fare lo stesso con la tua di pelle» Obiettò Lisa

      «È una gara? Vuoi vedere quante ferite ho sotto pelle? Credi non ci abbia provato ad essere come volevano tutti gli altri? E sai cosa rimane alla fine? Niente! Solo sangue e il vuoto di un riflesso che neanche riconosceresti.» Senza pensarci avvicinai il coltello alle mie clavicole. Il gesto era già chiaro nella mia mente, lo consideravo già compiuto ma Lisa mi afferrò il braccio terrorizzata. Allontanò il coltello, mise le mani sulle mie spalle e mi strinse a lei. «Non volevo farti spaventare e la mia pelle non può stare senza la tua, rimaniamo abbracciate così» mi disse.

      Dopo un paio di ore il silenzio era calato, il gatto era andato via, il criceto dormiva, il rubinetto aveva smesso di perdere, Lisa respirava piano, in attesa che io ricominciassi a ricucire.

      Inviato su Te l'ho mai raccontato? | 2 commenti | Tag amore, lgbt, lgbtq, racconti
    • Cara Fede,

      Posted at 11:12 by fedepis, on settembre 28, 2019

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      Sei dietro la mia sedia e le tue mani sono a un passo dalle mie spalle, sospese in attesa del mio consenso al tuo tocco. Non ho mai scritto una lettera a qualcuno che si trovasse così vicino.

      Ho imparato che ammettere di aver sbagliato è meno stancante del trovare giustificazioni aogni errore e lo ammetto: non ti rendo la vita facile, in questi trent’anni non ti ho mai dato tregua. La colpa non è mai stata la tua, non sei stata tu a farmi diventare così, ti ho trasformato nel mio carnefice perché io sono stata il tuo. In realtà sono stata io a farti del male, a torturarti, sfinirti per potermi sentire in colpa, ti ho stuzzicato così da poter dire che sono la povera vittima di una parte di me.

      Li ricordo i giorni in cui riflessa nello specchio ti ho insultata per il futuro che credevo…

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    • Non ci ho pensato

      Posted at 18:33 by fedepis, on settembre 18, 2019

      In dieci anni di GNE, lei è stata un pensiero fisso, non uno di quei pensieri che volontariamente pensi ma uno di quei pensieri che c’è e basta – chiedo venia per la similitudine – come quando si ama qualcuno: c’è anche se non la vedi, se non la senti, se non sta nell’altra stanza o nel tuo letto, anche se non ti racconta la sua giornata, anche se non la cerchi.

      L’altra sera, verso la 21, dopo aver cenato con mia madre e mia sorella, stavo pulendo lo schermo del cellulare con Maria De Filippi in sotto fondo, all’improvviso squilla il telefono di casa che non era vicino a noi ma su un altro ripiano. Non conoscevamo il numero e mia madre dice: io non lo prendo!

      E io concordando, sempre pulendo il mio cellulare, dico: neanche io!

      Dopo qualche secondo guardo mia sorella e vedo che ride. Anche io comincio a ridere ma soltanto in quel momento mi accorgo di che cosa ho detto. La mia non era una battuta – ne faccio molte sui miei non-poter-fare-qualcosa -, io l’ho detto per davvero. L’ho detto perché davvero ho creduto che l’altra ipotesi sarebbe stata alzarmi, andare verso il cordless, afferrarlo e rispondere.

      È stato un vuoto assoluto, riesco a sentire ancora la sensazione, e uscire da quel vuoto è stato come caderci dentro, come quando non sapete che in fondo è tutto un sogno fin quando non vi svegliate.

      Inviato su Senza categoria | 1 Commento
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      La maggior parte delle volte in cui un bicchiere di vetro ricolmo di acqua cade per terra, la colpa è della distrazione. Tornando indietro, in fondo, avremmo potuto evitarlo. Se non l’avessimo posizionato così vicino al bordo del tavolo, oppure se l’avessimo spostato in tempo, prima che il nostro gomito lo colpisse, non sarebbe mai caduto e noi non avremmo rischiato di ferirci camminando su dei pezzi di vetro a piedi scalzi. Sophia lo guarda cadere, il bicchiere. Sente il tonfo, lo vede infrangersi sul pavimento e, nello stesso istante, lei fa la medesima fine.
      Per tutto il romanzo, con il suo strano modo di camminare, Sophia vede esplicarsi al di fuori di sé la malattia genetica che porta dentro. Tutto è una perdita di equilibrio, in tutto c’è odore di arance rosse e succose che scivolano via dalle mani di un giocoliere e si infrangono sui pezzi di vetro. Ma chi è il giocoliere? È davvero chi crede Sophia?
      Attraverso flussi di pensiero, flashback, cambi di persona, decostruzioni e ricostruzioni, Sophia si rende conto che nulla era come credeva, che la ricerca di qualcuno implica sempre la ricerca di se stessi e che, forse, è proprio vero che si comincia dalla fine.
      – RobinEdizioni

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